il manifesto 8.11.16
Scacchiere mondiali per dominatori
Percorsi.
 Nel libro di Joseph S. Nye jr in «Fine del secolo americano?» si indaga
 il rapporto tra Cina e Stati uniti, mentre in «The dictator’s dilemma» 
di Bruce J. Dickson ci si sofferma maggiormente sulla «egemonia» 
asiatica
di Simone Pieranni
Negli ultimi tempi 
gli equilibri asiatici sembrano essere completamente in via di 
ridefinizione. La scintilla diplomatica del nuovo presidente filippino 
Rodrigo Duterte, che ha tuonato contro gli Usa e si è avvicinato alla 
Cina, ha costituito la prova che qualcosa sta cambiando. A stretto giro 
la Malesia è apparsa seguire lo stesso percorso, mentre la Birmania 
cerca il modo migliore per avvicinarsi a Pechino, così come farà 
presumibilmente la Thailandia una volta superata la fase di successione 
dinastica a seguito della morte del proprio re.
Si tratta di 
segnali che indicano un cambiamento negli equilibri asiatici o il 
sintomo di qualcosa di più grande? E come interpretare un recente 
articolo di Foreign Affairs, nel quale viene esaminato il maestoso piano
 «One Belt One Road» della Cina, la nuova via della Seta tanto marittima
 quanto terrestre che punta Asia, Medioriente, Europa e perfino gli 
stessi Stati uniti, nel quale si suggerisce agli Usa di non porsi 
«contro» Pechino, ma di provare a entrare in una sorta di collaborazione
 con il gigante cinese?
Siamo di fronte a segnali di modifiche 
paradigmatiche degli equilibri mondiali, oppure si tratta di scosse 
parziali che non metteranno in discussione la principale potenza 
mondiale? Sono domande sulle quali da tempo si pubblica svariato 
materiale di studio, principalmente rivolto a due argomenti: ci si 
chiede se gli Stati uniti sono nella loro fase discendente e se la Cina 
riuscirà a non crollare sotto i colpi delle proprie contraddizioni 
proprio nel momento di maggior debolezza del suo rivale.
Naturalmente, come sempre accade, le cose sono più complicate.
Sul
 primo punto è intervenuto di recente Joseph S. Nye jr, considerato il 
teorico del «soft power» (con i suoi Soft Power, Einaudi, 2005 e Smart 
Power, Laterza, 2012) con un volume di recente pubblicazione, Fine del 
secolo americano? (Il Mulino, pp.136, euro 13, con un’introduzione di 
Angelo Panebianco) nel quale viene sostanzialmente analizzato il 
rapporto tra Cina e Stati uniti.
Senza paura di spolier, Nye non 
ritiene che sia già giunto il momento di decadenza dell’impero 
americano, anzi: Washington sembra ben salda in sella. L’analisi si 
completa di elementi politici, economici e culturali; naturalmente non 
manca il soft power che dimostrerebbe come in realtà gli Usa non siano 
in un momento di grande difficoltà, specie rispetto al sorgere di 
potenze che, prima tra tutte la Cina, benché in ascesa non sembrano 
ancora in grado di reggere il confronto (Nye sembra maggiormente 
preoccupato circa il dato del raddoppio della popolazione africana nei 
prossimi decenni). Per Nye è confermata l’espressione: «Il secolo 
americano: data di nascita 1941, morte: incerta».
Il professore 
della John F. Kennedy School of government di Harvard vede l’attuale 
mondo diviso in tre enormi scacchiere, simboli della rinnovata 
complessità del mondo multipolare. Sulla «scacchiera superiore» Nye pone
 il potere militare, «in gran parte unipolare, in quanto è probabile che
 gli Stati uniti ne mantengano il primato ancora per molto tempo».
Sulla
 seconda, quella «di mezzo», Nye pone il potere economico, quello ancora
 «multipolare con gli Stati uniti, l’Europa, il Giappone e la Cina quali
 principali giocatori e altri paesi che guadagnano posizioni». Infine 
c’è la scacchiera «in basso», ossia «il regno delle relazioni 
transazionali, che attraversano i confini, fuori dunque dal controllo 
del governo». Su questa piattaforma si confrontano «i giocatori non 
statali, i più disparati, dai banchieri, che trasferiscono fondi 
elettronicamente, ai terroristi, che trasferiscono armi, dagli hacker, 
che costituiscono un pericolo per la sicurezza informatica, a minacce 
quali pandemie e cambiamenti climatici».
Secondo Nye quest’ultima 
scacchiera è quella determinante per il futuro e nessuna potenza potrà 
esercitare una vera egemonia al riguardo: «da solo nessuno può 
affrontare con successo questi problemi transazionali, nemmeno una 
superpotenza, che dovrà dunque ricorrere alla collaborazione di altre 
realtà». Gli Stati uniti non starebbero perdendo un’egemonia; è la loro 
centralità a non bastare più: «sul piano di gioco della scacchiera 
bassa, il potere è ampiamente diffuso e non ha senso parlare di 
unipolarismo, multipolarismo o egemonia. Molti di questi problemi non 
sono risolvibili grazie a soluzioni militari, per cui diventeranno 
indispensabili reti di cooperazione».
Nye conclude la sua 
riflessione citando il documento del National Intelligence Council, «le 
cui stime sono valutate attentamente dal presidente degli Stati uniti», 
secondo il quale nel 2030 gli Usa saranno ancora «il paese più potente 
al mondo» ma non ci saranno paesi egemoni. Il merito della riflessione 
di Nye è duplice; da un lato evidenzia i problemi attuali di percezione 
di sé degli americani, dall’altro allarga il campo: è davvero importante
 capire chi tra Cina e Usa sarà più potente, a breve o nel lungo 
periodo, o stiamo solamente posticipando una riflessione più generale su
 un mondo nel quale conteranno sempre meno gli stati e sempre più gli 
organismi transnazionali (fossero pure alleanze tra stati)?
Nye 
mette sul tavolo questa riflessione, mentre gli analisti più focalizzati
 sulla Cina tentano di uscire da quel buco nero orientalista che è la 
«visione occidentale» della Cina.
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A
 questo proposito appare connesso con il volume di Nye l’opera 
dell’analista della George Washington University Bruce J. Dickson, The 
dictator’s dilemma, the chinese communist party’s strategy for survival 
(Oxford university press), non tanto perché il libro indaga – anche – il
 rapporto con gli Stati uniti da parte di Pechino, quanto perché 
costituisce un importante documento per una comprensione più dettagliata
 della potenza cinese.
Al riguardo bisogna specificare due punti 
fondamentali: innanzitutto il titolo del volume non corrisponde in modo 
preciso all’oggetto del libro. Dickson non perde tempo a chiedersi se la
 Cina sopravviverà o collasserà a breve – il professore è da annoverare 
tra i teorici della prima ipotesi – ma si focalizza sulla concezione che
 i cinesi hanno rispetto al partito comunista. Ne emerge come il colosso
 politico cinese sia in grado di aprire spazi di riflessione e garantire
 ricchezza e stabilità economica al paese (anche attraverso meccanismi 
ambigui e poco ortodossi) ed essere percepito come il motore di una 
maggiore «democrazia».
Dickson sfonda un argomento considerato 
basilare nelle critiche alla Cina, specie nel suo paragone con gli Stati
 uniti. I fautori della «teoria del collasso» ritengono infatti che la 
Cina crollerà perché non sarebbe in grado di democratizzare le sue 
istituzioni a fronte di uno sviluppo economico clamoroso. Dickson 
dimostra – al contrario – che i cinesi ritengono di vivere un periodo di
 grande apertura democratica rispetto al passato. Naturalmente, e questo
 viene specificato da Dickson, dipende molto da cosa si intenda per 
democrazia. Il professore si focalizza su alcuni filoni occidentali di 
analisi del concetto e delle sue dinamiche e ne analizza alcune sue 
correnti cinesi, ricordando con grande enfasi il filone della «nuova 
sinistra» che avvicinava molto il concetto di democrazia a quello di 
eguaglianza economica.
Riagganciandosi a quanto scritto da Nye, il
 volume di Dickson fornisce un quadro molto dinamico delle realtà 
sociali e civili cinesi, aprendo alla possibilità che nello «scacchiere 
basso» di Nye, alla fin fine, se non conterà tanto Pechino per il suo 
peso «nazionale», potranno invece contare apparati transazionali – 
banche, società informatiche, operatori della logistica – cinesi. Nel 
continuo apprendimento delle proprie logiche di sopravvivenza, in fondo,
 sembrano ritrovarsi quelle organizzazioni civili e sociali in grado di 
uscire dai confini cinesi e giocarsi le proprie carte nella scacchiera 
«di sotto», fondamentale per determinare chi sarà egemone nel futuro del
 mondo multipolare.
 
