il manifesto 8.11.16
Presidenziali Usa. Netanyahu sorride, Abu Mazen tace
Medio
Oriente. Il premier israeliano è in una botte di ferro: «Chiunque sarà
eletto le relazioni fra Stati Uniti ed Israele non solo resteranno
eguali ma anzi si rafforzeranno ulteriormente». Per i palestinesi, con
Trump o Clinton, è notte fonda
di Michele Giorgio
GERUSALEMME
In politica e diplomazia di solito le cose non accadono per caso.
Perciò non è un caso che Israele ieri, alla vigilia del voto che
deciderà il nuovo presidente degli Stati Uniti, abbia detto in maniera
«chiara ed inequivocabile» di opporsi alla Conferenza internazionale per
il Medio Oriente che la Francia intende organizzare entro la fine
dell’anno a Parigi.
All’emissario francese Pierre Vimont, il
negoziatore Yitzhak Molcho e il consigliere per la sicurezza nazionale
Yaakov Nagel, hanno spiegato che «Israele non parteciperà ad alcuna
conferenza internazionale che sia convocata in contrasto con le sue
posizioni», che il progresso vero del processo di pace ed il
raggiungimento di un accordo avverranno solo mediante negoziati diretti
fra Israele e l’Autorità palestinese» e che «ogni iniziativa diversa non
fa altro che allontanare la Regione da quel processo».
Il dopo
Obama è già cominciato per Israele. Con il secco no di Molcho e Nagel
alla Francia, il premier Netanyahu ha inviato a Trump e Clinton un
messaggio molto chiaro: silurate la conferenza di Parigi e impedite un
colpo di coda del presidente uscente. Da tempo circolano voci di una
vendetta fredda di Obama per l’umiliazione che gli ha inflitto il primo
ministro israeliano andando ad arringare (marzo 2015) il Congresso Usa
contro l’accordo sul nucleare che l’Amministrazione stava negoziando con
l’Iran e per il costante utilizzo degli numerosi amici di Israele ai
vertici delle istituzioni politiche statunitensi contro la politica
della Casa Bianca.
Netanyahu stapperà la sua bottiglia più costosa
per festeggiare l’uscita di scena di Obama. Non che il presidente
americano abbia modificato o limitato in qualche modo le relazioni
strettissime, strategiche, tra Usa e Israele, anzi ha concesso a Tel
Aviv il pacchetto di aiuti militari più generoso mai accordato ad un
altro Paese. Però Obama nei rapporti personali e in con diverse
dichiarazioni non ha nascosto i suoi mal di pancia per gli atteggiamenti
e le politiche di Netanyahu volte a demolire definitivamente l’idea di
uno Stato palestinese proclamando allo stesso tempo di appoggiarla, a
cominciare dall’espansione senza precedenti delle colonie ebraiche in
Cisgiordania e Gerusalemme Est.
«Chiunque sarà eletto le relazioni
fra Stati Uniti ed Israele, che già sono solide e forti, non solo
resteranno eguali ma anzi si rafforzeranno ulteriormente», ha affermato
domenica Netanyahu, con evidente soddisfazione. «Ci aspettiamo che gli
Usa continuino a restare fedeli al principio che loro stessi hanno
sancito molti anni fa, ossia che il conflitto israelo-palestinese può
essere risolto solo mediante trattative dirette senza precondizioni, e
ovviamente non con risoluzioni dell’Onu o di altre istituzioni
internazionali», ha aggiunto riferendosi a una possibile iniziativa di
Obama alle Nazioni Unite che Clinton o Trump dovranno bloccare, pur non
essendo ancora in carica.
Netanyahu, come una buona fetta degli
israeliani (soprattutto i coloni) e il suo ricchissimo alleato americano
Sheldon Adelson, in silenzio tifa per Trump che in campagna elettorale
ha promesso di più allo Stato ebraico, a partire dal riconoscimento Usa
di Gerusalemme come capitale di Israele. Ma si augura la vittoria di
Hillary Clinton più stabile rispetto all’imprevedibile Trump, con una
solida esperienza internazionale, maturata prima da first lady e poi
come Segretario di stato, e alleata di ferro di Israele.
Si
preferisce Clinton anche ai vertici dell’Anp di Abu Mazen. Il presidente
e i suoi più stretti collaboratori però tacciono per non perdere la
faccia di fronte alla popolazione palestinese che rifiuta Trump e
disprezza Clinton e l’intera classe americana schierata sempre e
comunque con Israele e contro la legalità internazionale. «Tra gli
uomini del presidente prevalgono quelli che preferiscono Clinton perchè
la conoscono e mantengono rapporti politici con lei» dice al manifesto
l’analista Ghassan al Khatib «eppure la politica dei Democratici si è
quasi sempre rivelata sfavorevole ai palestinesi, persino più di quella
dei Repubblicani. Lo stesso Obama ha promosso il disimpegno degli Usa
dalla questione palestinese e dal Medio Oriente. Trump però genera
troppi timori a causa della sua imprevedibilità e delle sue
dichiarazioni contro gli arabi e l’Islam». Secondo al Khatib il Medio
Oriente dilaniato dalle guerre sarà nei guai in ogni caso. «Dovesse
vincere Trump» dice l’analista «vedremo un più intenso impegno militare
americano nella regione. Con Clinton invece proseguirà il coinvolgimento
minimo degli Usa che non darà alcun benefico alla causa palestinese».
Non
bevono per motivi religiosi ma idealmente stappano una bottiglia di
champagne assieme a Netanyahu i petromonarchi del Golfo, a cominciare
dal saudita Salman che non aspetta altro che l’uscita di Obama dalla
Casa Bianca. Vorrebbero vincente Trump, perchè credono che con lui alla
presidenza gli Stati Uniti probabilmente lanceranno quelle operazioni
militari, contro la Siria e l’Iran, che l’Amministrazione uscente invece
ha congelato. Clinton, pensano, seguirà le orme di Obama.