il manifesto 8.11.16
Un capo in cerca di acclamazione
di Michele Prospero
Si
 possono anche ridurre i cori della Leopolda a un eccesso di spirito 
fazioso. O leggere i toni di Matteo Renzi come un’esagerazione 
espressiva di un leader che gioca a indossare la maschera del bullo. 
Così però si evita il cuore della questione, che non riguarda una 
vampata di calore del pubblico o un’ambigua psicologia del capo.
Esiste
 un nesso tra l’ideologia originaria del renzismo (la rottamazione) e la
 recita aggressivo-denigratoria che si ripete con regolarità. Questo 
collegamento sfugge a Marco Travaglio che, pur essendo uno dei bersagli 
delle intemperanze (non solo) verbali del premier, tende a salvare il 
moto primitivo della rottamazione, come pratica ispirata a valori 
d’innovazione positivi, poi smarriti nella gestione del potere. Non 
esiste però una bella promessa di rottamazione che poi è andata tradita.
 Quello che va in scena nei teatri, in parlamento, al Nazareno è 
precisamente lo spirito inverato della riconduzione del nemico a un 
ammasso di cose-corpi insignificanti, da annichilire. È insita 
nell’ideologia della rottamazione la conquista degli spazi di potere in 
nome dell’energia, della volontà di azzerare ogni residuo di diversità 
percepito come fattore di disturbo.
Chi agita la rottamazione come
 simbolo identificante, una volta conquistato lo scettro, rinuncia ad 
ogni discussione entro gruppi dirigenti plurali. Brucia ogni 
argomentazione, verifica, analisi. Teme la logica, perché il vecchio De 
Mita lo ha strapazzato con il pensiero. Il potere, rivendicato come una 
manifestazione di energia che abbatte le vecchie resistenze, non ha 
altro canone di giustificazione che la esibizione di potenza, la 
simulazione di rapidità nella decisione.
Il fastidio per la 
differenza (rimozione d’imperio dei parlamentari dissenzienti dalle 
commissioni), la repulsione per la critica (allontanamento di Belpietro e
 di Amadori da Libero), l’insofferenza per il servizio pubblico 
(epurazione di Giannini da Ballarò e di Berlinguer dal Tg3), la volontà 
di sorveglianza e punizione (diapositive con i titoli dei giornali 
sgraditi dati in pasto alla disapprovazione dei seguaci) non sono 
incidenti di percorso. Sono il nerbo della rottamazione. Che è un corpo 
del capo in cerca di acclamazione.
E la insegue, senza riuscirvi, 
nelle piazze, che rimangono vuote e anzi ospitano manifestazioni di 
insubordinazione. Si rifugia perciò nei luoghi sorvegliati, dove i suoi 
gradi di comando incutono timore e quindi ricevono l’obbedienza che si 
mostra nella disponibilità dei subalterni a ridere persino delle battute
 più sciocche. E questo accade nelle surreali direzioni di partito, con 
schiere di eletti che plaudono perché cercano solo la conservazione del 
seggio, nelle recite nei teatri o nei convegni degli industriali con 
questuanti che fingono gradimento perché aspettano incentivi.
Nella
 storia repubblicana la coincidenza tra la carica di presidente del 
consiglio e quella di segretario di partito si è riscontrata solo in 
brevi frangenti. Questa repulsione all’intreccio delle funzioni di 
leadership aveva una sua giustificazione che esce confermata. Renzi 
trascina il ruolo pubblico di capo del governo in una rissa che 
contrasta profondamente con la funzione istituzionale ricoperta.
Nel
 suo partito personale nessun figura di garanzia interviene per 
ricondurre il leader entro un universo di regole. La minoranza, che 
viene cacciata con il furore della milizia personale di chi guida il 
partito-persona, non trova alcuna protezione negli strumenti 
garantistici di un non-partito del leader. In occasione del referendum 
di Segni per il maggioritario, cioè in uno scontro politico non meno 
decisivo di quello del 4 dicembre, furono molti gli esponenti del Pds a 
votare in maniera diversa da quella del partito. In un dissenso 
organizzato Ingrao, Rodotà, Tortorella, Ferrara, Chiarante, Natta si 
impegnarono attivamente nei comitati per il no. E non ci furono 
invocazioni di misure sanzionatorie o denigrazioni come esponenti di un 
fronte di sabotaggio che voleva riprendersi il partito. Con Renzi il 
referendum diventa un passaggio plebiscitario per edificare un potere 
personale. Per questo la rottamazione se realizzata emana la sgradevole 
puzza di regime.
 
