il manifesto 8.11.16
Bellocchio, il dolore nel ricordo
Al cinema. Il 10 novembre esce nelle sale «Fai bei sogni», il nuovo film del grande regista tratto dal romanzo di Gramellini
di Eugenio Renzi
Alla
 morte del padre, Massimo torna nella casa di famiglia. Dovrebbe 
sgomberare l’appartamento. Invece mette tutto a soqquadro. Come il 
romanzo di Massimo Gramellini, da cui è tratto, il film di Marco 
Bellocchio inizia dal nostro presente. Poi, con il protagonista adulto, 
steso sul letto della cameretta, torna indietro alla fine degli anni 
sessanta. Massimo è un bambino, figlio unico di una famiglia della media
 borghesia torinese. Studia, proprio come uno dei « buoni » del libro 
Cuore. Ed è la madre, qualche volta, a distrarlo dai compiti, per 
ballare un twist … Improvvisamente, l’idillio si spezza. Il bambino è 
svegliato nel cuore della notte. La madre, gli si dice, ha avuto un 
malore. Più tardi, un prete gli dirà che Dio l’ha presa a sé.
Che 
cosa c’è di Marco Bellocchio in questa storia ? Per prima cosa, il 
protagonista. Massimo è uno di quei caratteri cocciuti e un po’ 
antipatici per i quali Bellocchio prova in questa fase del suo cinema 
amore e odio, ma soprattutto interesse per la loro curiosa ribellione: 
essi non vogliono cambiare, restano tenacemente attaccati al loro punto 
di vista. Massimo, per esempio, non accetta la morte della madre. Non 
che la creda viva; semplicemente, si rifiuta di elaborarne il lutto, 
come si conviene.
Vedendolo infelice, il padre ha l’intuizione di 
trasmettergli la passione per il «Toro». Per il bambino, seguire il 
calcio diventa un amore, e in seguito una professione, nella quale si 
getta con trasporto. Ma se egli da un lato si realizza nel lavoro, 
l’impressione è che sia più per occupare la mente che per vivere. La sua
 vita è fondata non su un movimento, ma su un’illusione di movimento. 
Egli è rimasto al punto in cui era quando la madre è morta. Persino a 
Sarajevo, nel mezzo del conflitto balcanico che segue da giornalista, 
un’immagine drammatica gli sbatte in faccia la verità che da decenni non
 vuole affrontare, e lo riporta là dove è sempre stato: 
nell’appartamento torinese.
Il problema è, in fondo, più 
bellocchiano che mai: ancora quello di Alessandro nei Pugni in Tasca, 
con la differenza che il personaggio di Massimo vive una difficoltà in 
più. Più arduo che sbarazzarsi di una madre viva, è liberarsi di una 
madre morta. Il film, seguendo il romanzo, risolve questo problema in 
maniera abbastanza schematica. In un primo tempo, costruendo l’ostacolo.
 In seguito, facendone prendere coscienza al proprio eroe. Infine, 
offrendogli la soluzione… Lo sblocco è simbolizzato dal ballo che il 
protagonista fa con Benice Bejo durante una festa, e che richiama il 
twist con la madre dell’inizio.
Ma proprio questa apparente 
linearità nasconde la profondità del film. Apparentemente, Fai dei bei 
sogni è costruito dentro e fuori l’appartamento. Ogni volta che il film 
esce dalle quattro mura è solo per ritrovare nel mondo quello che 
Massimo ha vissuto dentro, quando la madre era ancora viva. La casa è 
non tanto un luogo del ricordo, ma un laboratorio nel quale Bellocchio 
sperimenta il conflitto tra due forme del divenire: il tempo oggettivo 
da un lato e il tempo psicologico dall’altro. Con che immagine metterli 
in scena? In Vincere il tempo storico aveva le fattezze di Mussolini – 
un modo di ironizzare sulla Storia, in cui solo i «vincitori» prevalgono
 – e il tempo della coscienza quella di una moderna Antigone – vinta 
eppure indomita.
Qui è chiaramente il tempo della coscienza a 
prevalere e ad imprigionare i fatti, limitando la cronaca a immagini 
fisse, personali, ossessivamente riprese: il suicidio, la caduta, il 
risveglio. Potremmo dire che, per Bellocchio la coscienza ha un genere: è
 femminile. Più che sui fatti storici, molto presenti, il film si muove,
 avanti e indietro, osservando da un lato una collezione di figure 
materne e dall’altro un certo cambiamento dei costumi. C’è, in Fai bei 
sogni un lavoro sottile, discreto ma molto riuscito, sui modi esteriori e
 sul carattere compassato della borghesia torinese. E come questo 
carattere viene trasmesso alla generazione di Massimo, il quale ne 
eredita i tratti, conformandosi ma anche reinventandone i modi di fare, 
di parlare, d’essere.
Si tratta di una microstoria, ma che nel 
film è molto presente e resta impressa grazie all’intelligenza di 
Valerio Mastrandea, questo attore romano la cui carriera è nata proprio a
 Torino. Mastrandrea riprende qui il testimone di un personaggio, l’eroe
 bellocchiano, che ha avuto molti volti – Lou Castel, Sergio Castellitto
 per citarne due dei più belli – e che in questo nuovo film si offre 
sotto una luce affaticata, oscura, più che mai toccante.
 
