Corriere 8.11.16
Tortura, il crimine che si annida nel cuore di tenebra di ogni potere
Esce in libreria il saggio di Donatella Di Cesare Tortura, edito da Bollati Boringhieri
di Emanuele Trevi
Esce
 in libreria dopodomani, giovedì 10 novembre, il saggio di Donatella Di
 Cesare (nella foto) Tortura, edito da Bollati Boringhieri (pagine 217, e
 11)
L’autrice, firma del «Corriere», è docente ordinaria di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma
Il
 libro, oltre ad affrontare il tema della tortura sotto il profilo 
filosofico, esamina diversi casi concreti: l’omicidio di Giulio Regeni 
in Egitto, le violenze del G8 di Genova, i casi di Abu Ghraib e 
Guantanamo, l’uso di metodi che non lasciano segni visibili sulle 
persone seviziate. A suo avviso si può e si deve parlare di tortura 
ogni volta che un soggetto inerme si trova «nelle mani del più forte»
Tra
 i punti su cui insiste Donatella Di Cesare c’è l’esigenza di 
introdurre il reato di tortura nelle leggi penali del nostro Paese
Allieva
 di Hans-Georg Gadamer, il padre nobile dell’ermeneutica nel secondo 
Novecento, Donatella Di Cesare si è immersa negli anni recenti nelle 
acque limacciose dei Quaderni neri di Martin Heidegger, alla ricerca di 
verità scomode e dirompenti anche all’interno della comunità di studiosi
 alla quale appartiene. A un marcato interesse per il totalitarismo e le
 sue più nefaste perversioni si deve il suo ultimo libro, intitolato 
semplicemente Tortura (Bollati Boringhieri). Come se enunciare questa 
parola fosse già un gesto di sfida, ancora più efficace di un titolo 
come Contro la tortura . Perché il potere moderno che impiega la tortura
 come strumento di dominio per prima cosa si impegna con grande scrupolo
 a negare non solo la cosa, ma la parola stessa.
Capitoli 
essenziali di questa «crudele scienza del dolore» sono il segreto e il 
silenzio. Lo scenario ideale è il sotterraneo, da dove nessun lamento 
potrà mai raggiungere il mondo esterno. Se la tortura è un male così 
tenace, molta della sua forza deriva proprio dall’occultamento e dalla 
negazione. Vale la pena di guardare in questo buco nero dal punto di 
vista della filosofia, come fa Donatella Di Cesare? Indubbiamente sì, 
perché la posta in gioco è tutt’altro che un’esercitazione accademica su
 un tema astratto.
Si potrebbe dire che la filosofia è il vero 
antidoto della tortura, perché incalza con la sua esigenza di verità ciò
 che il potere vuole rendere opaco, sospeso in un limbo tra l’essere e 
il non essere, tra la regola e il reato. E poi, la filosofia deve sempre
 essere una terapia contro i falsi ragionamenti, le illusioni spacciate 
per conclusioni.
Ebbene, l’argomento più diffuso in 
giustificazione della tortura suona più o meno come un quesito 
filosofico. Sta per scoppiare, in qualche luogo molto popolato della 
città, una bomba a orologeria. Ho un prigioniero, un terrorista che sa 
dove è collocata la bomba, se lo torturo crollerà e mi permetterà di 
salvare centinaia, forse migliaia di vite. Ecco una situazione che 
potrebbe suggerire addirittura il dovere di fare uso della tortura, 
scongiurando il male maggiore con il male minore. È un argomento che ha 
un grande potere: è immediatamente comprensibile, e capace di orientare 
efficacemente l’opinione pubblica. E visto che la tortura si annida 
tanto nella dittatura quanto nella democrazia, l’opinione pubblica 
assume un rilievo fino a poco tempo fa del tutto inaspettato in un 
dibattito sulla tortura.
Questo forse è il punto cruciale 
dell’indagine di Donatella Di Cesare: non c’è una forma particolare di 
governo che in sé e per sé possieda un legame di necessità con 
l’esercizio della tortura. Certamente, dal semplice punto di vista 
quantitativo, le dittature ne fanno un uso maggiore, e la loro negazione
 è più efficace, tanto che il solo pronunciare la parola tortura può 
diventare un pretesto più che sufficiente per entrare nel numero dei 
torturati. Ma il dilemma della bomba a orologeria è concepito per una 
società libera, dove le cose non esistono senza consenso e dove il 
consenso può rendere legittime le pratiche più scellerate. Questo è il 
rischio principale, lo scoglio sul quale può infrangersi la fragile 
imbarcazione di qualsiasi democrazia. E allora, seguendo per sommi capi 
il ragionamento di Donatella Di Cesare, il primo gesto filosofico sarà 
quello di smontare l’intero congegno.
Non c’è nessuna bomba a 
orologeria e nessun terrorista in quella determinata situazione. Perché 
le cose non accadono mai così linearmente come possiamo vederle in una 
serie televisiva. Magari. Allora saremmo tutti contenti che un Jack 
Bauer strapazzi un po’ quel disgraziato fino a fargli sputare le 
informazioni che salveranno tutte quelle vite che affollano la stazione 
della metro o i grandi magazzini nell’ora di punta. Ma nella realtà le 
cose accadono in maniera incomparabilmente più ingarbugliata, e i 
rapporti di causa ed effetto sono così complessi che la tortura, 
semplicemente, dal punto di vista puramente pragmatico, non serve a 
niente.
L’unica cosa vera di quella situazione immaginaria, in fin
 dei conti, è che le vite si salvano con le informazioni. Ma le 
informazioni buone non si ottengono torturando: si comprano, si rubano, 
si scoprono in modo fortuito, o con l’impiego di sofisticatissime 
tecnologie. Dunque la filosofia si deve confrontare con questo 
controsenso, il perdurare nella storia umana di qualcosa che non può 
nemmeno vantare una sua utilità a chi ne rifiuta l’infamia. Ma 
interrogarsi sulla natura del potere, di qualsiasi forma di potere, 
significa prima o poi addentrarsi in questa malefica penombra, in questa
 terra senza ritorno dove la legge è amministrata dal fuorilegge, che la
 distorce a un fine inaudito, insostenibile.
Un personaggio di un 
romanzo di Graham Green dice che Hitler ha insegnato agli europei che 
tutti, indipendentemente dal loro ceto, dal loro sesso, dalla loro età e
 dalle loro colpe, sono potenzialmente torturabili. Questa feroce 
parodia del concetto di uguaglianza è una delle zone morte della nostra 
storia, un lascito di cui le nostre società non riescono mai a liberarsi
 una volta per sempre.
 
