il manifesto 3.11.16
Abusi e violenze, l’inferno degli hotspot italiani
Migranti. Scosse elettriche per identificare i migranti. La denuncia di Amnesty International
di Matteo de Bellis
ricercatore di Amnesty International
Salih
aveva solo 10 anni quando le milizie hanno attaccato il suo villaggio
nella regione del Nord Darfur, in Sudan. «Era sera. Sparavano e davano
fuoco alle nostre capanne. I miei genitori sono stati uccisi ma io sono
riuscito a scappare». È arrivato da solo fino a Khartoum, dove è rimasto
fino all’inizio di quest’anno, quando suo zio che vive nel Regno Unito
gli ha mandato dei soldi per raggiungerlo.
Ha impiegato più di un
mese per viaggiare attraverso il deserto in Libia e poi verso nord fino
alla costa, dove ha pagato il viaggio attraverso il Mediterraneo su una
barca sovraffollata. «La Croce rossa ci ha salvati e ci ha portati a
terra» mi ha detto Salih, che ora ha 16 anni ed è ancora un bambino,
quando l’ho incontrato a Ventimiglia, a luglio. Ma invece di essere
aiutato a ricongiungersi con lo zio, si è ritrovato intrappolato ai
confini dell’Europa. E invece di trovare sicurezza sulle coste europee,
ha detto di essere stato picchiato dalla polizia italiana, appena poche
ore dopo l’arrivo.
Dopo il suo salvataggio, Salih e altri nuovi
arrivati sono stati portati in autobus al così detto «hotspot» di
Taranto. L’approccio hotspot, introdotto nel 2015 su raccomandazione
della Commissione europea, è un sistema creato per identificare tutti i
nuovi arrivati, valutare velocemente i loro bisogni di protezione e
incanalarli nelle procedure d’asilo oppure rinviarli nel loro paese
d’origine. Il punto cruciale è che questo prevede che l’Italia
identifichi e rilevi le impronte digitali di tutti i nuovi arrivati. Ma
persone come Salih, che vogliono chiedere asilo in altri paesi europei
dove sono i loro parenti, hanno un forte interesse a evitare che gli
vengano prese le impronte digitali dalle autorità italiane. Farlo
significherebbe poter essere rimandati in Italia – paese di primo
ingresso – se tentassero di continuare il viaggio nell’Unione europea.
«Non
volevamo che ci prendessero le impronte digitali ma quattro poliziotti
ci hanno trascinati fuori dall’autobus e fino all’ufficio, dove hanno
cominciato a picchiarmi» mi ha detto Salih. «Mi hanno colpito almeno
quattro volte con un manganello e poi ho sentito una scossa elettrica
sulla schiena. Sono collassato e ho iniziato a vomitare. Dopo 10 minuti
sul pavimento ho accettato di dare le impronte digitali».
L’esperienza
di Salih non è unica. Quest’estate ho incontrato due dozzine di
rifugiati e migranti – uomini, donne e bambini – che mi hanno detto di
essere stati picchiati, colpiti con le scosse dei manganelli elettrici o
minacciati dalla polizia dopo aver rifiutato di farsi prendere le
impronte digitali. Un ragazzo di 16 anni e un uomo di 27 hanno descritto
come la polizia li abbia costretti a spogliarsi e abbia inflitto loro
dolore ai genitali. Una donna di 25 anni mi ha detto che è stata
trattenuta a Lampedusa per mesi e poi schiaffeggiata ripetutamente per
spingerla a dare le impronte digitali.
Questi abusi, che in alcuni
casi costituiscono tortura, sono un aberrante effetto collaterale della
strategia di «condivisione dell’irresponsabilità» dell’Europa. Mentre
la condotta della maggior parte della polizia rimane professionale e la
grande maggioranza dei rilevamenti delle impronte digitali avviene senza
incidenti, i risultati dettagliati nel nuovo rapporto di Amnesty
International pubblicato oggi fanno sorgere gravi preoccupazioni circa
il comportamento di alcuni agenti. Il rapporto mette in luce anche le
carenze fondamentali delle politiche migratorie dell’Europa. Infatti, le
impronte digitali dell’Europa sono ben visibili sulla scena del
delitto. Nessuno ha riassunto questo aspetto più chiaramente di un
interprete che lavorava in un hotspot, citato da un uomo di 22 anni che
ho incontrato: «Mi spiegò che dovevamo dare le impronte digitali
altrimenti l’Italia avrebbe ricevuto una multa. Mi dissero che c’erano
altri agenti europei che controllavano se alle persone erano state
rilevate le impronte digitali. E che quelli che si rifiutavano sarebbero
stati picchiati dalla polizia italiana».
L’arrivo di centinaia di
migliaia di uomini, donne e bambini, in fuga da conflitti, violazioni
dei diritti umani e povertà, grava fortemente sull’Italia, che guida gli
sforzi per salvare le vite in mare. In assenza di canali sicuri e
legali di accesso in Europa, rifugiati e migranti hanno viaggiato in
maniera irregolare e con un alto rischio per le loro vite.
Nel
tentativo di ridurre la pressione sull’Italia e sugli altri stati in
prima linea, l’approccio hotspot era stato abbinato a un programma di
ricollocazione dei richiedenti asilo in altri paesi dell’Unione europea.
Tuttavia, la componente di solidarietà dell’approccio hotspot si è
dimostrata ampiamente illusoria: a oggi, 1200 persone sono state
ricollocate dall’Italia, a fronte delle 40.000 che erano state promesse,
mentre quest’anno oltre 150.000 persone hanno raggiunto l’Italia via
mare.
Sotto la pressione dell’Unione europea, l’Italia ha cercato
di aumentare il numero di migranti rinviati nei loro paesi d’origine.
Questo ha significato anche la negoziazione di accordi di riammissione
con governi che hanno commesso terribili atrocità. In applicazione di
uno di questi accordi, lo scorso agosto, 40 persone, identificate come
sudanesi, sono state messe su un aereo dall’Italia verso Khartoum.
Amnesty International ha parlato con due uomini del Darfur che erano su
quel volo e hanno raccontato che le forze di sicurezza li hanno
aspettati al loro arrivo a Khartoum per interrogarli.
L’approccio
hotspot, progettato a Bruxelles e messo in atto in Italia, ha causato
gravi violazioni dei diritti di persone disperate e vulnerabili. Le
autorità italiane hanno la responsabilità diretta, i leader europei
quella politica. Nel frattempo, orfani come Salih sono lasciati a
cavarsela da soli. Dopo quattro giorni nell’hotspot di Taranto, Salih è
stato portato alla stazione ferroviaria e lasciato lì. «Nessuno mi ha
chiesto se volevo chiedere asilo o nient’altro» mi ha detto. «Voglio
andare via dall’Italia. Voglio stare con mio zio e la sua famiglia, in
Inghilterra».