il manifesto 3.11.16
Referendum, l’illusione che rinviare significhi vincere
di Massimo Villone
Alfano,
ministro dell’interno, ha acceso le polveri sul possibile rinvio del
voto referendario per il terremoto, e Renzi ha subito smentito. Ovvio.
Un rinvio così motivato richiederebbe la modifica con decreto legge
della tempistica imposta dalla legge 352/1970. Fatalmente, sarebbe letto
come la mossa disperata di chi teme di perdere. Per di più,
strumentalizzando un disastro che ha colpito la vita di tantissimi
cittadini. Renzi sarà pure un giovanotto egocentrico e arrogante, ma di
sicuro non è uno stupido. Ma altro sarebbe se il rinvio derivasse da una
iniziativa giudiziaria, formalmente neutrale, attraverso la via un po’
tortuosa e incerta di un rinvio alla Corte costituzionale e di una
sospensiva del decreto di indizione del referendum da parte di questa.
Questo
consentirebbe a Renzi di cedere con buona grazia alla forza maggiore di
una pronuncia del giudice, al tempo stesso ribadendo la sua ferma
volontà di andare al voto al più presto. Senso dello Stato, nessuna
colpa, nessuna responsabilità politica.
Lasciamo al gossip
l’ipotesi – sussurrata a mezza bocca – che la strategia giudiziaria sia
stata in realtà concordata tra i proponenti e Renzi, o sia comunque
maturata negli ambienti anche autorevoli che sprofondano nel timore di
una vittoria del No. Può essere o meno vero, ma non ci interessa. Perché
comunque è una strategia che non serve al paese, e nemmeno allo stesso
Renzi.
Rinviare il voto significa guadagnare tempo, ma per fare
cosa? Intuitivamente, per dare respiro alla campagna del Sì, oggi in
affanno nonostante il dominio mediatico di Palazzo Chigi e lo smaccato
appoggio a Renzi della economia e della finanza italiana e straniera.
Inoltre, per mettere mano alla riforma dell’Italicum, al fine di
riguadagnare la dissidenza interna Pd e tutti quelli che sono pronti a
prendere per buona qualunque riforma pur di risalire sul carro
governativo.
Pare a noi che le riforme di cui si parla siano in
realtà volte a recuperare la sostanza dell’originario patto del
Nazareno, ripristinando le condizioni di un bipolarismo forzoso – pur
quotidianamente smentito dai fatti e dai sondaggi – tra un
centrosinistra di Renzi, e un centrodestra di Berlusconi o chi per lui. A
tal fine si potrebbe aprire alle coalizioni o agli apparentamenti per
l’attribuzione del premio di maggioranza. Altresì, si potrebbe
cancellare il ballottaggio e tornare al turno unico, se si mantenesse la
soglia di accesso al premio bassa: ad esempio, intorno al 35%.
Una
riforma così costruita potrebbe puntare a ridurre le prospettive di
successo M5S nelle elezioni anticipate probabili dopo una vittoria del
Sì. Ma regalerebbe allo stesso M5S settimane o mesi di devastante
campagna pubblicitaria sulla linea dell’inciucio e della vecchia
politica che sopravvive con ogni mezzo nei volti apparentemente nuovi,
per impedire il cambiamento virtuoso e imporre quello in danno della
gente comune che lavora duramente per garantire dignità e sicurezza alla
propria famiglia. Chi suggerisce strategie di rinvio dovrebbe
riflettere. Non basta evitare la sconfitta oggi, se una vittoria male
guadagnata domani costa di più.
Per chi si è impegnato per il No
senza etichette di partito, il rinvio può essere un fastidio, ma non un
impedimento. Una battaglia giusta prescinde dal tempo in cui si svolge,
ancor più se riguarda la Costituzione. Il destino di Renzi non è mai
stato all’ordine del giorno. Per di più, ha già fatto tutto lui. Se
anche vincesse il Sì, il 4 dicembre o dopo, Renzi rimarrebbe pur sempre
il premier che ha forzato troppo sulle riforme, essenzialmente in vista
del proprio potere personale, spaccando il paese su un terreno
delicatissimo come quello dell’identità storica e politica data dalla
Costituzione, e per di più ritardando con ogni mezzo il voto quando ha
temuto la sconfitta.
In politica conta l’autorità, ma ancor più
l’autorevolezza. Con la vittoria del Sì Renzi potrebbe anche accrescere
la prima, ma intanto ha già perso la seconda, e con essa una pretesa non
arbitraria di governare il paese. Non c’è maggioranza truccata dal
premio che possa restituirgliela, perché il suo posto nella storia l’ha
già scelto lui stesso.
Il rinvio non serve, a niente e a nessuno.
In politica non è come nelle favole, in cui alla fine vissero tutti
felici e contenti.