La battaglia dei cittadini alle radici della Repubblica
Storia del Novecento. Addio allo storico Claudio Pavone, scomparso all'età di 95 anni. Sua l'opera fondamentale intorno alla Resistenza «Una guerra civile»
di Gianpasquale Santomassimo
A 96 anni non compiuti per un sol giorno, si è spento Claudio Pavone, dopo una lunga vita spesa bene con eleganza e discernimento.
Liberato nell’estate del ’44, riprese l’attività clandestina a Milano, dove visse gli eventi della fine del fascismo. Questi ricordi sono nel libro La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza, edito da Donzelli nel 2015, dove è contenuta anche una vivida descrizione di Piazzale Loreto e di un popolo «non all’altezza della tragicità» di quell’epilogo. Fu per gran parte della sua vita archivista, divenendo nel tempo maestro per generazioni, promuovendo l’apertura dei confini della professione spesso angusti e autoreferenziali, e continuando anche in seguito a interessarsi dei problemi connessi tanto all’organizzazione degli Archivi quanto alla legislazione più moderna e delicata in materia (il tema della privacy, ad esempio).
I SUOI INTERESSI di storico furono a lungo dedicati al tema, assai poco frequentato, del modello di impianto amministrativo che dal Piemonte volgeva all’Italia post-unitaria (Amministrazione centrale e amministrazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), del 1964). E con prime approssimazioni ai temi di storia e cultura della Resistenza che in età già molto avanzata lo avrebbero visto protagonista assoluto.
Il primo intervento, che fece molto discutere, fu quello del 1959 sulla rivista vicina ad Antonio Giolitti «Passato e presente», attorno a Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento, che ricostruiva il tema complicato del rapporto con la tradizione risorgimentale, a volte non pacifica e anzi conflittuale per molte tradizioni e segnatamente per quella comunista, passata nel corso degli anni Trenta dalla denigrazione di quel passato alla rivendicazione dei simboli risorgimentali. Come molte polemiche si addensavano attorno a un altro dei temi portanti della sua ricerca, quello sulla «continuità dello Stato», negli anni Settanta divenuto tema di discussioni accese e di suggestioni interpretative contrapposte rispetto alle origini dell’Italia repubblicana e al suo rapporto con il passato.
RISPETTO A SEMPLIFICAZIONI troppo brutali che all’epoca erano correnti, la sua ricerca, contenuta in un ampio saggio del 1974 e in interventi successivi (raccolti tutti nel volume Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri 1991) documentava l’innegabile continuità operante, pur non disconoscendo «i molti cambiamenti intervenuti», senza per questo «rifluire nella storiografia dei delusi», e tenendo nel dovuto conto ruolo degli Alleati, persistenze di apparati e termini complessi dell’epurazione tentata e solo parzialmente attuata.
Solo in età avanzata entrò nell’università, insegnando alla Statale di Pisa dal 1975 e uscendone come docente associato nel 1991 (il che dice molto sull’università italiana), proprio alla vigilia della sua fama improvvisa presso il grande pubblico e della sua consacrazione come protagonista riconosciuto di un filone importante e controverso della storiografia italiana.
Aveva cominciato a suscitare discussioni, molto vive e talvolta aspre nell’ambiente resistenziale, tornando a proporre il tema della «guerra civile» in alcuni convegni a partire dal 1985. E proprio Una guerra civile era il titolo della grande opera pubblicata nel 1991, ma con un sottotitolo che andò quasi dimenticato: Saggio storico sulla moralità della Resistenza.
Ci fu, e probabilmente a maggior ragione vi è tuttora – nell’inevitabile semplificazione che lo scorrere del tempo comporta – un fraintendimento sul senso di quel titolo. Certamente il termine col passare degli anni era caduto in disuso, sebbene la definizione di guerra civile fosse stata presente a lungo nel linguaggio ufficiale, talvolta sostituita con l’espressione «guerra fratricida» dalla connotazione molto più deprecativa.
MA PAVONE SPIEGAVA chiaramente, nelle prime pagine del libro, il senso che intendeva dare all’espressione prescelta: guerra civile perché guerra combattuta dal cittadino, dal civis, l’unica guerra degna di essere combattuta, perché investiva integralmente l’esistenza di chi vi prendeva parte.
Si trattava di una laboriosa, ricca e sapiente ricostruzione di cultura e politica, di universi morali e mentali delle molte componenti che confluivano in quel fenomeno, dall’una e dall’altra parte.
La vera grande novità interpretativa era la teorizzazione delle «tre guerre» che si combatterono in Italia tra il ’43 e il ’45 (e dalle radici che talvolta affondavano in un passato che non andava rimosso): guerra civile, patriottica, di classe. Guerre che non si svolgevano autonomamente e in parallelo ma si intersecavano e si sovrapponevano in maniera inestricabile nella stessa coscienza dei protagonisti.
SI È TRATTATO DI UN PUNTO fermo nella riflessione storica, da cui non sarà possibile tornare indietro e che non può essere banalizzato dalla disinvoltura di chi privilegia un solo elemento unilaterale ignorando la complessità e la tragicità del fenomeno. «In certi momenti mi dico, autoironicamente, di essere riuscito a non morire fascista né democristiano. Spero di non crollare sotto il peso di questo ventennio tanto surreale quanto doloroso», affermava in una intervista a Repubblica del 27 ottobre 2013. Gli ultimi anni lo avevano visto, fino a quando non era stato soverchiato dal peso della vecchiaia, lucido e attivo nell’impegno civile e culturale.
Chi ha memoria delle sue conversazioni lo ricorderà a lungo come uomo ricco di curiosità e di umanità, dal tratto signorile e dalla mitezza non priva di una fermezza di fondo e di una coerenza interiore che non lo aveva mai abbandonato.