il manifesto 25.11.16
Una riforma a misura del populismo di governo
Saggi. «Costituzione e antipolitica» di Mario Dogliani per Ediesse
di Michele Prospero
Il
pregio del libro di Mario Dogliani (Costituzione e antipolitica,
Ediesse, pp. 244, euro 13) è di affrontare i risvolti tecnici delle
riforme istituzionali con un approccio che penetra i nodi politici di
più ampia ricaduta. Accanto alle questioni di organizzazione dei poteri
(affrontate in aggiunga da un saggio di Roberta Calvano) lo sguardo
perciò si rivolge ai fondamenti di cultura politica e costituzionale che
si rintracciano nelle revisioni del bicameralismo.
Gli
accadimenti degli ultimi anni, con la riforma imposta da una minoranza
insensibile alla evocativa scena di aule parlamentari deserte, segnano
un restringimento obiettivo dello spazio democratico. Un governo che
dichiara di aver ricevuto dal Colle un esplicito mandato di maggioranza
per rivedere la Carta, è già una profonda anomalia rispetto al quadro di
una democrazia costituzionale.
E ancor più inedito è il tragitto
prescelto, che vede il leader infilzare le opposizioni (anche quelle
interne al Pd) per poi giocarsi la legittimazione al comando personale
in uno scontro definitivo.
Tutto ciò tramuta il referendum, da
strumento oppositivo e di garanzia per la minoranza, in un plebiscito
per l’approvazione ex post della leadership che si propone alla folla
come fonte alternativa rispetto ai riti della mediazione e della
rappresentanza.
Le parole di Dogliani sono non reticenti:
«l’appello al popolo contro la costituzione è l’atto massimamente
eversivo che in un ordinamento costituzionale possa essere compiuto».
La
posta in gioco di Dicembre non è solo la ripartizione procedurale delle
competenze, è anzitutto connessa alla qualità democratica del sistema.
Il revisionismo di governo sollecita pulsioni antipolitiche primitive (i
costi, le poltrone, la velocità) per edificare un confuso ordine
plebiscitario.
Accanto agli istinti ancestrali della folla,
sedotta dal gran gesto del capo, il potere confida nel conformismo della
cultura italiana. Tra le abbondanti fila di intellettuali con «le
schiene ricurve», Dogliani individua le sembianze di filosofi di grido
che prima hanno definito la Carta «un feticcio mineralizzato» e ora
invitano la massa a dire sì a riforme che loro stessi giudicano «una
puttanata». Solo in un’ottica irriflessiva e illiberale di acclamazione
si può giustificare la volontà di sostenere la potenza del palazzo nella
sua richiesta di un sì che va concesso senza motivo, senza un briciolo
di giustificazione critica.
È chiaro che il consolidamento di un
caotico ordine plebiscitario comporta l’umiliazione della rappresentanza
e la sepoltura degli organi di controllo e di garanzia. La costituzione
di maggioranza, cucita su misura di un capo alla testa di una fazione
agguerrita che vede «l’emergere di cerchi magici che privatizzano il
potere pubblico», segna il declino della Repubblica. La retorica delle
riforme, come competenza arbitraria di ogni occasionale maggioranza,
secondo Dogliani comporta la drastica «caduta del riconoscimento della
normatività della costituzione».
La strada verso la catastrofe
pare già segnata dinanzi alla irresponsabile condotta di chi, per
arginare l’antipolitica, enfatizza proprio i ritrovati dell’antipolitica
che schiaffeggia il sistema parlamentare e coltiva «lo schiacciamento
della leadership politica sull’evento, sull’attimo, sulla costruzione
mediatica del gesto» indifferente al pensiero.
Proprio in
situazioni critiche, con forze oscure in agguato, a parere di Dogliani
bisognerebbe riconciliarsi con la costituzione come norma condivisa e
assumerla di nuovo come «l’Arca dell’Alleanza» capace di fornire senso.
La
strategia di recupero della normatività della Carta è però destinata
alla sterilità se non ricostruisce le trame di una soggettività sociale,
cioè se non ritrova quel «nucleo pre-liberale», lo chiama Dogliani, che
collega costituzione e vita buona.
La scorciatoia carismatica non
è certo socialmente neutra. Essa è anzi il corredo di una spicciola
democrazia di investitura nella quale il potere economico esprime un
capo che viene «poi acclamato, con una delega assoluta, da maggioranze
irrazionali».
Dinanzi alla carenza dei canali di mediazione, con
forze sfregiate e ridotte a «partiti artropodi», il libro sostiene che
tocca al popolo sovrano, convocato nel plebiscito, reagire al populismo
di governo per ristabilire le condizioni minimali della effettività e
della normatività della costituzione.