il manifesto 25.11.16
Con Trump un tacchino avvelenato
Stati
uniti. L’enorme fisiologico conflitto di interessi di un presidente
eletto con investimenti e affari in ogni comparto dell’economia
nazionale ed internazionale, investimenti in numerosi paesi amici ed
antagonisti, è semplicemente sminuito dall’interessato mentre gli
esperti sfogliano freneticamente i codici legali in cui sembrano
effettivamente non risultare norme precise in merito - oltre
all’informale codice deontologico che ha indotto ogni predecessore a
disfarsi di investimenti sconvenienti sull’uscio della casa bianca. Ma
se le istituzioni dipendono da un etica volontaria avranno un brusco
risveglio con un presidente specializzato nell’infrangere ogni
protocollo
di Luca Celada
Nella settimana del
Thanksgiving sono emanati segnali sempre più inquietanti dall’ultimo
piano di Trump Tower dove il presidente in pectore prepara il suo
gabinetto alla maniera di un torvo reality. Mentre Trump continua a
twittare un flusso di messaggi al popolo, alternatamente petulanti e
minacciosi, una parata di pretendenti cortigiani compie il
pellegrinaggio alla sua corte di 5th avenue (o al suo club di golf in
New Jersey o nella sua reggia kitsch in Florida) fra i flash dei
fotografi. Il caro leader concede interviste patinate e rilascia editti
via messaggi video agli Americani: sull’abrogazione dei trattati, la
fine delle norme ambientali, le restrizioni all’immigrazione. La stampa
«menzognera» invece, come promesso durante la campagna, è tenuta
lontana, salvo venir convocata, come l’altro giorno gli anchor e
direttori di tutti i network, per un auto da fe in cui il nuovo
comandante in capo li ha apostrofati per nome e cognome per essere stati
bugiardi e faziosi e presumbilmente notificati di una musica che sta
per cambiare di molto.
Bisogna fare affidamento alle
indiscrezioni che tutti gli esponenti della celebrata libera stampa
americana sono stati tenuti – ed hanno subito sottoscritto – il totale
riserbo in merito. Pochi giorni dopo il presidente-celebrity ha
visitato egli stesso la redazione dell’odiato New York Times rilasciando
dichiarazioni a tutto campo in versione di «amabile antagonista» che ha
di nuovo lasciato interdetta la stampa. La facilità con cui Trump
manipola i media lascia supporre il peggio anche per le altre
istituzioni di una democrazia non vaccinata contro la sfacciataggine
dell’anomalia trumpiana.
L’enorme fisiologico conflitto di
interessi di un presidente eletto con investimenti e affari in ogni
comparto dell’economia nazionale ed internazionale, investimenti in
numerosi paesi amici ed antagonisti, è semplicemente sminuito
dall’interessato mentre gli esperti sfogliano freneticamente i codici
legali in cui sembrano effettivamente non risultare norme precise in
merito – oltre all’informale codice deontologico che ha indotto ogni
predecessore a disfarsi di investimenti sconvenienti sull’uscio della
casa bianca. Ma se le istituzioni dipendono da un etica volontaria
avranno un brusco risveglio con un presidente specializzato
nell’infrangere ogni protocollo.
Trump avanza imperterrito,
minacciando giornalisti «nemici» di revoca degli accrediti, invitando
gli Inglesi a mandargli l’amico Farage come ambasciatore a Washington e
procedendo con la «splendida» opera delle nomine. Nei nomi fin qui
annunciati si delinea la sconfitta dell’ala istituzionale del partito
che, accodatosi al carro del vincitore, sembra aver mal calcolato le
probabilità di poterlo pilotare dagli scranni del congresso. È risultato
più che chiaro dall’elevazione di Steve Bannon a consigliere strategico
a cui sono seguiti una schiera di giacobini trumpisti in posizioni
chiave dell’esecutivo. Alla giustizia Jeff Sessions dell’Alabama, un
reazionario del sud che qualche anno fa era stato squalificato da una
nomina a giudice federale a causa di certe esternazioni sulla
superiorità della razza bianca. Alla Cia è andato Mike Pompeo del
Kansas che considera il Medio Oriente il fronte incandescente di una
guerra di religione. Alla sicurezze nazionale il generale Mike Flynn,
altro falco anti islamico e teorico del disgelo con Putin.
All’istruzione Betsy De Voss una integralista evangelica del Michigan
che delle scuole pubbliche apprezza soprattutto la libertà di
preferirgli quelle private.
L’unica figura lievemente moderata
finora è la governatrice del South Carolina, Nikki Haley, mandata a
fare l’ambasciatrice all’Onu dove non farà danni.
Procede intanto
il lento spoglio per determinare il saldo definitivo di queste
singolari elezioni. Il vincitore del collegio elettorale si colloca
ormai oltre 2 milioni di voti dietro l’avversaria nel voto popolare.
Trump è presidente in virtù della specifica distribuzione geografica di
qualche decina di migliaia di preferenze in Wisconsin, Michigan e
Pennsylvania. Una manciata di province hanno sancito la sua resistibile
ascesa e la sterzata reazionaria che prevedibilmente annullerà decenni
di progressi sociali e ripristinerà nella definizione di Bannon «il
destino originario del capitalismo americano».
Quest’ultimo
trionfo avverrà a scapito dell’ambiente e sulla pelle degli elettori
working class cui Trump ha fatto la vana promessa di ripristinare un
economia irrimediabilmente scomparsa.
Ma ne faranno le spese tutti
gli americani la cui nazione è stata usurpata da una banda di
estremisti nazional-populisti che nel giro di pochi giorni hanno già
normalizzato comizi suprematisti e filo nazisti e intemperanze
quotidiane contro stranieri, immigrati, minoranze e «dissidenti» per le
quali nel giorno del ringraziamento la maggioranza dei cittadini,
quella che ha votata contro Trump, ha trovato ben poco per cui rendere
grazie.