il manifesto 25.11.16
Lo dicono i numeri, non ha vinto Trump, ha perso Clinton
I
democratici perdono 5 milioni di voti, 600mila i repubblicani, le terze
forze passano da 2 a 6. Si vince conservando tutti i propri voti e
rubandone un po’ all’avversario
di Aldo Carra
Il
voto americano è ormai entrato nella politica italiana: per scongiurare
il rischio populismo dilagante meglio votare Sì. Dopo le avanzate delle
destre in alcuni paesi dell’Europa continentale e dopo la Brexit
preoccuparsi è giusto, ma fare una lettura di comodo di quelle elezioni
può favorire le destre, invece di combatterle. Vediamo, allora, meglio e
schematicamente cosa è accaduto negli Usa.
I votanti sono stati
128 milioni, poco meno dei 129 milioni del 2012. Ma i due principali
partiti hanno perso quasi cinque milioni di voti mentre le terze forze
sono passate da 2 ad oltre 6 milioni. Il bipolarismo comincia a stare
stretto anche agli americani.
I democratici hanno perso cinque
milioni di voti ed i repubblicani solo seicentomila. La Clinton ha preso
seicentomila voti più di Trump, ma per il particolare meccanismo
elettorale che assegna i grandi elettori in ciascuno Stato interamente
al partito vincitore, la Presidenza è andata ai repubblicani. Quindi non
di vittoria di Trump si tratta, ma di una sonora sconfitta della
Clinton che ha causato la perdita di sei stati democratici, a favore dei
repubblicani. Ma anche del combinato disposto con un sistema elettorale
che in alcuni casi (era già accaduto con Al Gore-Bush) produce
distorsioni della rappresentanza.
C’erano 27 Stati in cui i
democratici avevamo la maggioranza. In 21 i democratici, pur perdendo
tre milioni di voti, hanno conservato la maggioranza perché lì i
repubblicani non hanno fatto meglio ed hanno perso anche loro 2 milioni
di voti. Negli altri sei i democratici hanno perso un milione centomila
voti, i repubblicani ne hanno guadagnati un milione, ma hanno preso la
maggioranza in tutti e sei, mentre i democratici non sono riusciti a
sottrarre nessuno stato ai repubblicani.
La chiave di quanto è accaduto sta tutta qui. Non un terremoto elettorale, ma pochi voti in più presi nei punti giusti.
Le
analisi del voto dicono che i comportamenti elettorali strutturali
tradizionali permangono: gli elettori a basso reddito votano ancora in
maggioranza democratici, così i giovani, così i neri ed i latino
americani; sull’altro versante, i repubblicani predominano nettamente
tra i bianchi, e soprattutto tra quelli protestanti e ricchi, oggi come
sempre negli ultimi cinquanta anni. Che cosa, allora ha determinato i
risultati? Due fattori: riuscire a trattenere il proprio elettorato,
fare incursioni mirate nel campo avversario. Trump è riuscito a fare
questo: ha massimizzato il voto nelle aree tradizionalmente
repubblicane, ha attratto anche elettori democratici. E questo è
accaduto soprattutto nelle aree di crisi che stanno pagando il prezzo
della globalizzazione. In sistemi con concentrazione storica dei voti in
pochi partiti la conquista di elettori dell’altro campo è importante,
ma solo se e quando i partiti riescano a curare e conservare il proprio
elettorato.
La crisi che sta attraversano il mondo dei paesi
avanzati mette sempre di più in discussione gli assetti bipolari
tradizionali ed apre la strada a componenti nuove che si collocano oltre
le tradizionali divisioni destra-sinistra, progressisti-conservatori.
Il
fatto che i fenomeni populisti stiano scuotendo le aree avanzate
dell’occidente ci deve spingere a riflettere sul carattere strutturale
della crisi iniziata nel 2008. I paesi avanzati che hanno sospinto il
processo di globalizzazione verso la massima circolazione di merci e
capitali, si trovano, oggi, sgomenti ed impreparati, davanti alle
naturali conseguenze di quel processo: migrazioni, disuguaglianze,
disoccupazione. Non è un caso che la scossa sia più visibile proprio nei
paesi guida e simbolo del neo liberismo – Gran Bretagna prima ed Usa
adesso – e che essa avvenga proprio quando quei processi si sono
avvicinati al limite massimo raggiungibile. Quando la liberalizzazione
si estende oltre a merci e capitali anche alle regole della produzione e
del consumo ed ai servizi, sancisce il dominio degli interessi delle
imprese sugli Stati – simbolo il Ttip – implica la libera circolazione
delle persone. Si trovano in casa la contraddizione: hanno al loro
interno le aziende avanzate dell’economia digitale e le centrali della
finanza, ma anche i disoccupati prodotti dalla crisi della manifattura e
dai processi di automazione e gli immigrati che abbassano il prezzo del
lavoro. Insieme le due facce della medaglia della globalizzazione.
In
queste fasi storiche accade che gli interessi dominanti si chiudano a
difesa e che si inneschino processi di ritorno indietro verso egoismi ed
identitarismi, di nazione e di etnia. Il rischio, quindi, c’è. Ma non
si esorcizza gridando al mostro in agguato ed inseguendolo sul terreno
del populismo, vecchio o nuovo che sia, di governo o di opposizione. Il
problema richiede una nuova globalizzazione, di diritti e condizioni
materiali, una ricomposizione sociale e politica, la costruzione di un
grande fronte democratico, una politica che unisce. È la lezione che ci
viene dagli Usa. Altro e oltre i Sì e il No al referendum.