il manifesto 24.11.16
Birmania
Quando a Rangoon si inventò il balsamo di tigre
di Ilaria Benini
Un’aura
di fascino e mistero non ha mai lasciato la Birmania e la sua ex
capitale Rangoon (oggi rinominata Yangon), né negli anni in cui erano
grandi autori a scrivere di lei (Rudyard Kipling, Pablo Neruda, Somerset
Maugham, George Orwell), né negli anni in cui raccontare questo angolo
di mondo disteso verso il Golfo del Bengala divenne sempre più
difficile, per la chiusura del paese entro i propri confini, controllati
da una dittatura che fece dell’autarchia una delle principali armi di
controllo del dissenso interno.
Oggi la
«terra delle mille pagode» si sta scrollando polvere e macerie,
raddrizzando la schiena, allungando lo sguardo avanti e indietro. C’è
molto di cui essere nostalgici e orgogliosi guardando al passato di
Rangoon, un sentimento da sfruttare nella transizione democratica in
corso perché l’ispirazione per il cambiamento arrivi anche dalla propria
storia e non soltanto dall’aspirazione emulativa nei confronti di
Singapore e Corea.
Certo si tratta di un
passato ambivalente, perché la Rangoon cosmopolita era diventata tale
dopo esser stata conquistata dagli inglesi nel 1852. La città aveva un
altro nome ancora allora: Dagon, la sua esistenza legata a due luoghi
molto preziosi alla tradizione buddhista, le pagode Shwedagon e Sule.
Un
viaggiatore italiano alla fine del sedicesimo secolo la paragonò a
Venezia, descrivendo il flusso di pellegrini che si recavano in questo
luogo sacro «più grandioso» di San Marco.
Divenne
un centro urbano moderno per volontà britannica, che lo rese
l’epicentro di questa sua nuova provincia dell’India britannica, annessa
come fosse il Bengala o il Punjab. L’afflusso di immigrati a Rangoon fu
così imponente da trasformarla in una città a maggioranza indiana, con i
birmani diventati una minoranza.
«Vi si
mescolavano persone da ogni parte del subcontinente, da insegnanti
bengalesi a banchieri del Gujarat, da poliziotti sikh a commercianti
tamil. C’erano anche cinesi e comunità minori di europei, statunitensi e
latino-americani.» scrive Thant Myint-U nel suo Myanmar. Dove la Cina
incontra l’India (Add editore, 2015).
Proprio
osservando questo contesto emerse il concetto di «società plurale»,
definita dallo storico del Sudest asiatico J.S. Furnivall come un mix di
genti (nativi, indiani, europei, cinesi), che si incontrano nel mercato
della compravendita, ma non si combinano, mantenendo la propria
religione, cultura e lingua. Una società plurale con diverse comunità
che vivono fianco a fianco all’interno della stessa unità politica.
Imprenditori di Glasgow e indiani musulmani gestivano le grandi società
che commerciavano in riso, legname, petrolio, trasporti. La Birmania era
il maggior esportatore di riso nel mondo e molto di questo commercio
veniva gestito direttamente da Rangoon, il cui porto era un hub
fondamentale del tempo.
Anche le rotte aeree
usavano questa città, e non altre capitali del Sudest asiatico, come
base di scalo per i voli da Londra a Sydney della compagnia britannica
Imperial Airways, ad esempio, o della rotta da Amsterdam per Jakarta di
KLM.
Molti imprenditori fecero fortuna a
Rangoon, come i fratelli Aw, che inventarono il famoso balsamo di tigre
disponibile ovunque oggi in Asia, che vi nacquero e da lì espansero poi
le loro attività a Singapore e Hong Kong. I figli di questa élite di
commercianti iniziarono a frequentare scuole inglesi e l’intero sistema
educativo accrebbe la sua qualità.
Negli
anni ’50 l’Università di Rangoon era ancora uno dei migliori atenei in
Asia. Ne fu rettore fino al 1962, anno del colpo di stato, Hla Myint,
economista di fama mondiale che diventò in seguito un professore di
spicco alla London School of Economics.
L’eterogeneità
di culture era dimostrata anche dalla stampa birmana, che fino al colpo
di Stato del 1962 era considerata tra le più libere in Asia, con più di
trenta quotidiani indipendenti, tra cui sei in cinese, tre in inglese e
numerosi in diverse lingue indiane. Pezzo dopo pezzo, quella Rangoon si
sgretolò: prima con il bombardamento aereo avvenuto durante la Seconda
guerra mondiale a causa dell’invasione giapponese (ritratto ne Il
palazzo degli specchi di Amitav Ghosh), poi con la guerra civile e
l’assedio della città in seguito all’indipendenza dalla Gran Bretagna
nel 1948, infine con le scelte isolazioniste della dittatura di Ne Win.
I
movimenti in entrata e uscita dal Paese vennero drasticamente limitati,
la censura interruppe gli scambi culturali e portò alla chiusura di
giornali e case editrici.
I tempi della
ricchezza e del passato crogiolo di culture si intuiscono nelle facciate
derelitte dei vecchi palazzi, ma potrebbero presto essere totalmente
dimenticati se il piano urbanistico della città non si impegnerà a
tutelare quest’eredità, sostituendo i segni del passato con moderni
edifici che rincorrono il sogno del benessere.