il manifesto 24.11.16
Iran, narrare il passato, alchimia per l’identità del presente
Iran.
In Iran c’è uno schema nella rielaborazione della Storia, per farla
apparire compatibile con l’attualità e garanzia della contemporaneità
di Stella Morgana
Ci
avevano messo un anno per allestire quelle tende in grande sfarzo. Era
il 1971, a Persepolis, cuore storico dell’Iran del sud. Vassoi colmi di
prelibatezze, arrivate dritte dalle cucine di Maxim’s a Parigi,
sfilavano davanti ai leader di mezzo mondo, tra i drappeggi preziosi
voluti dallo Scià Mohammed Reza Pahlavi per celebrare in pompa magna i
2500 anni dell’Impero persiano. Mentre una grande fetta di iraniani
viveva praticamente in miseria, i banchetti continuarono per quasi
quattro giorni e lo Scià – davanti alla tomba di Ciro il Grande, a
Pasargade – si autoconsacrava discendente del padre dell’Impero, «re dei
re». Diceva: «Ciro, dormi in pace. Vegliamo noi».
Si
affidava al passato grandioso, agli anni delle battaglie e delle
conquiste dell’Impero, per legittimare la sua monarchia. Rievocava la
magnificenza dei predecessori nel tentativo di cristallizzare il
presente, attraverso un’implicita continuità con il passato. Immaginando
un Iran secolare, costruiva un’identità nazionale e strumentale al
discorso del potere. Conferendo una natura simbolica e rituale al
parallelo con Ciro il Grande, lo Scià de facto cercava di cancellare
l’eredità islamica, puntando sulla presunta «purezza» etnica. Costruiva
così un legame con il passato, reinventava cioè una tradizione. E, come
ha scritto lo storico britannico Eric Hobsbawm, «il passato al quale» le
tradizioni «fanno riferimento – reale o inventato che sia – impone
pratiche fisse».
La sutura era, dunque, la
continuità con i tempi antichi, il legame era con la Storia che fissa le
relazioni sociali e tenta di legittimare i rapporti di autorità. Ma in
realtà, il nazionalismo à la Pahlavi si serviva della continuità solo a
livello presunto. L’interesse effettivo era l’immutabilità: garantire la
sopravvivenza del regime, mantenere lo status quo, e dunque, ricercare
nel passato solo una solida fonte di riconoscimento.
Quindici
giorni dopo l’autoglorificazione dello Scià al cospetto della tomba di
Ciro, l’ayatollah Ruhollah Khomeini parlava davanti al mausoleo di Ali,
cugino e genero del profeta dell’Islam, Maometto. Era il 31 ottobre
dello stesso anno. La cornice era la città di Najaf, in Iraq. Colui che
poi si sarebbe appropriato delle istanze rivoluzionarie del 1979,
ergendosi a collettore delle richieste di cambiamento dei manifestanti
iraniani, ribaltava dal suo esilio il paradigma fondante dei Pahlavi.
Sosteneva
che il regime non aveva alcuna legittimità: in quanto «tirannico» e in
balìa di forze straniere e perché, posto nella sua natura monarchica, da
considerarsi intrinsecamente contrario all’Islam come sistema di
governo. Aggrappandosi con il suo discorso al passato musulmano degli
iraniani (di qualsiasi etnia, ma visti come tutti sciiti), Khomeini
segnava una cesura: politicizzava l’identità islamica dell’Iran, salvo
poi rielaborarla negli anni seguenti con la novità di un governo del
clero, in contrapposizione all’establishment di allora. La singolarità
della religione, a quel punto ideologizzata, intrecciava così tre piani
differenti: 1) La percezione di una minaccia; 2) la denuncia di un
abuso; 3) il senso di urgenza. Il discorso di un potere alternativo allo
Scià si articolava facendo leva sulla mobilitazione e costruendo un
implicito terreno di coesione collettiva contro «il nemico» comune:
«Facciamo in modo che smettano di comportarsi in questo modo con la
nostra gente, che l’immenso budget del governo venga speso per le
persone affamate e povere. (…) Vi dico che si prospetta un futuro buio e
pericoloso ed è vostro dovere resistere e servire l’Islam e i
musulmani», diceva Khomeini.
Se è evidente
l’asimmetria nelle due narrazioni del passato – una di matrice
nazionalista, l’altra religiosa – c’è uno schema comune, almeno in
termini di rielaborazione della Storia al fine di farla apparire non
solo compatibile con il presente, ma anche sigillo di garanzia (una
sorta di «usato sicuro») della contemporaneità. Altro elemento presente
in entrambe le cornici è una volontà manifesta di fissare dei
riferimenti identitari chiari, riconoscibili, ma soprattutto esclusivi
di una o dell’altra identità.
In un Paese
che ha una storia millenaria, ma è relativamente giovane come Stato
moderno, a far sovrapporre per un attimo le due narrazioni – entrambe
funzionali al discorso del potere e al suo esercizio – è l’integrità
territoriale di lunghissima data che l’Iran vanta. Significa che in
quelle stesse terre vivono da anni, almeno simbolicamente, gli iraniani
di oggi. E la maggior parte di loro parla il farsi. Se consideriamo,
infatti, l’identità come relazione e quindi come percezione della
differenza rispetto all’altro, sia all’interno di una cornice politica
nazionalista e secolare che in uno schema di natura islamica,
l’obiettivo dello Scià come di Khomeini era sottolineare l’unicità (e la
coesione) del popolo d’Iran rispetto alla propria autorità. Come ha
osservato l’analista Shahram Chubin, l’Iran è in qualche modo
«benedetto» da un «forte senso dell’identità, una cultura degna di nota e
un’antica civiltà dalle quali trae ispirazione». Poste queste
condizioni ed esplorate le due lenti politiche di rielaborazione
dell’identità, possiamo tracciare una linea immaginaria che da
quell’ottobre del 1971, e dal party sfarzoso dello Scià a Persepolis,
arriva fino al 2016.
È del 28 ottobre
scorso, infatti, la notizia che racconta di una manifestazione sotto la
tomba di Ciro il Grande a Pasargade, in occasione dell’anniversario del
suo ingresso a Babilonia. Le cose sarebbero andate così. Quel giorno,
nel giro di poche ore, sui social rimbalzano dei video in cui alcune
persone urlano in coro: «L’Iran è la nostra nazione, Ciro è nostro
padre». Alcuni report parlano di migliaia di persone: l’agenzia Fars
scrive di diverse persone arrestate. Raccoglie poi le parole
dell’ayatollah Nouri Hamedani, secondo cui questo rigurgito nazionalista
sarebbe «contro lo spirito della rivoluzione» del 1979 (e quindi in
opposizione ai principi della Repubblica islamica).
Dunque,
se da un lato è doveroso ammettere che la verifica indipendente dei
filmati è difficile, dall’altro è cruciale rilevare che tutto ciò
avviene proprio mentre il presidente della Repubblica islamica, Hassan
Rouhani, pragmatico che si è intestato l’onere delle riforme, ha
ufficialmente aperto – in tandem con l’Unesco – una nuova era di
«protezione del patrimonio storico e culturale dell’Iran» (compreso
quello del glorioso Impero persiano).
Non
solo: recentemente Rouhani ha pubblicato una foto di sé su Instagram e
alle sue spalle si scorge Persepolis. La didascalia dell’immagine elogia
il valore simbolico del sito archeologico come patrimonio delle
«antiche civiltà». Questo, però, non determina la misura di eventuali
spinte nazionaliste all’interno della Repubblica islamica. Lascia
comunque pensare a una trasformazione nel discorso politico
istituzionale.
Dopo la rivoluzione del 1979
nella neonata RI la narrazione seguiva delle direttive prettamente
religiose, escludendo i messaggi nazionalisti. Con il passare degli
anni, la retorica istituzionale si è poi arricchita anche di un
immaginario più diversificato: 1) è celebre lo slogan della campagna
elettorale del riformista Mohammed Khatami nel 1997, «l’Iran per tutti
gli iraniani», che campeggiava sui poster con la bandiera del Paese; 2)
nel 2010, il presidente populista Mahmoud Ahmadinejad ha esplicitamente
accostato il nome di Ciro il Grande al linguaggio presidenziale, come
mossa per risvegliare il collante nazionalista in tempo di crisi
economica. E ancora, a ricordare che l’Iran non è un blocco monolitico è
un passaggio di un recente articolo di Rohollah Faghihi su «al-Monitor»
che – citando fonti riservate – evidenzia che c’è un gruppo di
religiosi che non ha nulla in contrario all’orgoglio nazionale (se
questo serve a garantire unità al Paese), pur opponendosi all’arcaismo
nazionalista tipico dell’era Pahlavi. Un anonimo esperto sciita avrebbe
spiegato che «l’Islam non cerca di estirpare l’orgoglio nazionale che le
persone nutrono.
Ciò che sta accadendo
attualmente è un fatto politico. La religione non rifiuta Ciro o la
storia antica in sé. Chi si oppone non parla per tutti».
Il
passato, dunque, è invocato, usato e manipolato per costruire e
rielaborare di volta in volta il presente a seconda delle esigenze e
degli equilibri politici. La Storia d’Iran, negli ultimi quarantacinque
anni in particolare, è stata resa funzionale alla costruzione di una
narrazione del potere. A ragione, infatti, il sociologo Stuart Hall
invitava a non stigmatizzare l’identità come fissa o innata: «Forse,
invece di pensare l’identità come un fatto già compiuto, rappresentato
dalle pratiche culturali emergenti, dovremmo pensarla come «produzione»,
cioè come un processo sempre in atto, mai esauribile. Questa visione
problematizza l’autorità». Perché, come abbiamo visto, l’identità
rientra in un processo di trasformazione, come punto «instabile di un
processo di identificazione».