il manifesto 24.11.16
India
È zafferano il colore dell’antica mitologia dell’ultra induismo
India.
Gli hindu sarebbero discendenti degli ariani stabilitisi nella valle
dell’Indo 3mila anni fa e fondatori della cosiddetta «civiltà indiana»
di Matteo Miavaldi
L’anno
scorso, nel pieno dell’allarme «intolleranza» lanciato dagli ambienti
progressisti indiani in risposta alla repressione della libertà di
parola nel paese e agli attacchi fisici alle minoranze etniche,
religiose e castali, l’ambiente intellettuale della capitale iniziò ad
organizzare una serie di conferenze pubbliche tra università statali e
auditorium pubblici, invitando a parlare esponenti di spicco
dell’accademia nazionale.
L’aula come un buker
L’aula
al secondo piano del Ramjas College di Delhi University, tra gli atenei
più prestigiosi della Repubblica federale, alla fine del 2015
assomigliava a un bunker. Le elezioni universitarie, appena concluse,
avevano sancito la vittoria assoluta del collettivo Akhil Bharatiya
Vidyarthi Parishad (Abvp), affiliato al gruppo ultranazionalista hindu
Rashtriya Swayamsevak Sangh, dando ulteriore impeto alla progressiva
«hinduizzazione» dell’ateneo, già affidato a un rettore espressione
dell’Rss. In questo contesto, un gruppo di professori tenacemente
progressisti aveva organizzato un’intera giornata dedicata al tema della
libertà d’espressione, invitando relatori musulmani, dalit, vicini al
Partito comunista indiano (marxista) ed ex maoisti convertiti al
gandhianesimo.
Non senza sorpresa, seduto a
terra schiacciato contro il muro da diverse centinaia di studenti,
all’entrata di Romila Thapar nella stanza ho assistito a un vero e
proprio boato da stadio: ventenni in piedi a spellarsi le mani mentre
una signora ultraottantenne, bastone alla mano, guadagnava il podio per
quello che si sarebbe rivelato un discorso a braccio di quasi due ore su
pluralismo, accettazione, tradizione inclusiva dell’India, storia
dell’antichità del subcontinente.
Thapar,
senza dubbio la storica indiana vivente più nota e rispettata
nell’accademia mondiale, da decenni lotta contro la cosiddetta
«saffronization of history» (da «saffron», zafferano, il colore simbolo
dell’ultrainduismo) in India smontando uno a uno i miti e le invenzioni
che la destra hindu, prendendo a piene mani dalla mitologia induista, si
impegna a propagandare come storia provata con l’obiettivo di validare
la teoria madre dell’estremismo hindu: l’hindutva.
Ideologia e discendenza
Secondo
l’ideologia dell’hindutva, teorizzata nel 1923 dal padre
dell’ultrainduismo Vinayak Damodar Savarkar, gli hindu contemporanei
sarebbero discendenti diretti degli ariani, popolo che ha abitato la
valle dell’Indo ininterrottamente da oltre tremila anni e fondò la
cosiddetta «civiltà indiana». Da questa base di purezza, a cascata,
derivano tutte le diramazioni del pensiero ultrahindu che vede il
territorio indiano (bharat) come maderpatria esclusiva degli hindu, da
difendere, preservare o epurare da qualsiasi contaminazione esterna, sia
religiosa, etnica o culturale.
La teoria
dell’arianismo indigeno è in opposizione ad altre due teorie che parlano
di invasione degli ariani (popolo venuto da fuori che sostituì la
civiltà di Harappa) o, secondo Thapar, da una serie di migrazioni
pacifiche e sincretiche che diedero vita a una civiltà indiana
multiculturale, aperta e accogliente.
La
tradizione stupefacente di un territorio che nei secoli vide
avvicendarsi regni buddhisti, musulmani, hindu e occidentali, nonostante
sia provata da decenni di studi accademici negli ultimi tempi è entrata
nel mirino della destra hindu.
La destra hindu
La
Rss e le sue propaggini accademiche e politiche (tra cui il Bharatiya
Janata Party, Bjp, partito di governo guidato da Narendra Modi) si sono
fatte promotrici di una rilettura della storia che esalti le «virtù
indiane», ispirando un senso di appartenenza collettivo ai valori
portanti dell’induismo: la religione, la dieta, l’orgoglio patriottico e
la preservazione dalle impurità, anche culturali. In questo senso il
discorso ideologico e politico delle destre individua nella mitologia
hindu un passato storico vero, realmente accaduto: un’Età dell’Oro alla
quale il paese deve tornare per riacquisire il proprio orgoglio e il
proprio posto nello scacchiere delle potenze mondiali. Al pari delle
teorie creazioniste destituite di ogni barlume di storicità, le figure
mitologiche del pantheon indiano e i costumi dell’induismo contemporaneo
subiscono un processo di storicizzazione che ha un effetto diretto nei
rapporti intercomunitari del paese, sfociando spesso in fiammate di
violenza contro chi non si adegua alla vulgata identitaria.
Si
va dalla messa al bando di «The Hindus: An Alternative History»
dell’indologa Wendy Doniger, colpevole di aver mostrato la fiorente
tradizione erotica della letteratura hindu, o alle polemiche contro «The
Holy Cow» dello storico D.N. Jha, autore di un saggio sul consumo di
carne bovina all’interno della tradizione hindu, negato dai sostenitori
dell’hindutva. Passando per continue demonizzazioni del periodo
musulmano, considerato dagli ultrahindu una sorta di alto medioevo
barbarico nonostante il fiorire di arti, cultura e architettura ancora
oggi ben visibile in gran parte del patrimonio storico intatto a New
Delhi, tra le altre.
Il mito di Ram
L’esempio
più eclatante di danni causati dalla «saffronisation of history» in
India è rappresentato dal mito di Ram snaturato dalla destra hindu negli
anni Ottanta, un fenomeno già evidenziato da Daniela Bevilacqua su il
manifesto nel gennaio del 2014. La figura di Ram, protagonista
dell’epica del Ramayana e già divinizzato nel XI secolo come esempio di
virtù hindu, negli anni Ottanta entra nel mirino della propaganda del
Bjp, a caccia di voti in Uttar Pradesh. Secondo una rilettura filologica
del poema epico del Ramayana, il gruppo dirigente del Bjp iniziò a
diffondere la scoperta fatta da «storici dell’Rss» secondo cui la
moschea realizzata dall’imperatore musulmano Babur tra il XV e il XVI
secolo sarebbe stata edificata dopo aver raso al suolo un tempio hindu
eretto nel preciso punto del luogo di nascita di Ram.
Nacque
così il movimento Ramjanmabhumi (terra di nascita di Ram, dal
sanscrito) che, in una campagna elettorale itinerante partita dal
Gujarat, raggruppò milioni di fedeli hindu attorno alla causa del
ristabilimento della giustizia storica ottenibile solamente con la
demolizione della moschea, lasciando spazio per la realizzazione di un
grande tempio hindu dedicato a Ram. L.K. Advani, all’epoca nome di
spicco del Bjp, scrisse nelle sue memorie: «Se ai musulmani è accordata
un’atmosfera musulmana alla Mecca, e ai cristiani un’atmosfera cristiana
nel Vaticano, che c’è di male a pretendere un’atmosfera hindu per gli
hindu ad Ayodhya?».
Nel 1990 un primo raid
da parte di migliaia di attivisti della destra estrema hindu fu respinto
dalle forze dell’ordine dell’Uttar Pradesh, governato dal Samajwadi
Party della famiglia Yadav. L’anno seguente il Bjp stravinse le eleziono
locali nello stato e nel 1992, con un’amministrazione favorevole, le
stesse migliaia di ultrahindu si radunarono il 6 dicembre alle porte di
Ayodhya per quella che doveva essere una «deposizione simbolica» della
prima pietra del tempio. La folla, aizzata dai comizi di esponenti di
Bjp, Rss e Viswha Hindu Parisaha (Vhp, altra sigla dell’ultrainduismo),
sfuggì al controllo delle autorità e armata di picconi demolì l’intera
struttura davanti agli occhi impotenti di un’intera nazione.
La
reazione della comunità musulmana portò a scontri in tutto il paese
(oltre 2 mila morti), dando inizio a un vortice di violenze
intercomunitarie che insanguinarono Bombay nel 1992 (Bombay Riots, oltre
duemila morti) e nel 1993 (Bombay bombings, 257 morti) e il Gujarat nel
2002 (treno di pellegrini hindu in fiamme a Godhra, 57 morti; reazione
della destra hindu e della polizia nei Gujarat Riots, oltre 2000 morti).
Una ferita aperta dalla Storia secondo le caratteristiche hindu e non
ancora rimarginata.