giovedì 24 novembre 2016

il manifesto 24.11.16
Giappone
La «nazione divina» fronteggia l’essenza della sconfitta
Giappone. La modernità ha portato Tokyo a prendere a modello gli Usa annullando un proprio immaginario
di Stefano Lippiello

Shirai Satoshi, nato a Tokyo nel 1977. Laureato all’università Waseda di Tokyo, ottiene il dottorato in sociologia all’università Hitotsubashi. È stato ricercatore della Società Giapponese per la Promozione della Scienza di Tokyo, poi assistente alla Bunka Gakuen. Insegna teoria sociale e scienze politiche all’Università Seika di Kyoto. Autore tra gli altri di «Teoria della sconfitta permanente: l’essenza del dopoguerra giapponese» (Ohta Books 2013), vincitore di diversi premi in Giappone, e di «Epitaffio del Dopoguerra» (Kinyoubi 2015), entrambi non pubblicati in Italia.
L’idea della «sconfitta permanente» è nella sua opera la chiave di lettura storica del dopoguerra giapponese, cosa intende?
La «sconfitta permanente» è la descrizione di come il Giappone ha affrontato le conseguenze della seconda Guerra Mondiale. Si tratta di una negazione della sconfitta. Certo tutti i giapponesi sanno della sconfitta, ma non sono disposti a riconoscerne il significato storico. L’esperienza della guerra venne accettata più come una catastrofe naturale che non una generata dall’uomo. Una prova ne è che per molti il 15 agosto sia ricordato come il «giorno della fine della guerra» e non della sconfitta. Questa lettura dei fatti è emersa nel contesto della Guerra Fredda, che rese necessario far tornare alla guida del paese coloro che furono responsabili della guerra e fu rafforzata dal successo economico del dopoguerra. Senza una rigenerazione politica, però, il gruppo dirigente al cuore del sistema che ha portato il Giappone sull’orlo dell’annichilimento è sopravvissuto alla sconfitta e per questo la sconfitta non è mai stata superata. Questo si vede anche nelle relazioni con gli Usa e nella subordinazione ai loro interessi, soprattutto in termini di profitti, che questi richiedono. Il futuro del Giappone dipende dalla capacità di affrontare e superare il regime e la società all’origine di questo concetto.
Perché la «sconfitta permanente» è al centro della struttura politica del dopoguerra giapponese?
Questa struttura fu costruita dagli Stati uniti insieme ai conservatori giapponesi «pro statunitensi», molti dei quali erano in posizione di potere prima e durante la guerra e si trasformarono in «pro statunitensi» dopo.
Questo gruppo ha monopolizzato l’influenza pubblica in moltissime aree della società e ha resistito alla fine della Guerra Fredda rafforzando l’impressione di lavorare nell’interesse americano. Il loro comportamento non è sorprendente dato che devono la loro legittimazione ed egemonia proprio all’influenza americana. Gli Stati uniti, infondo, sono il loro vero padrone. Questa sconcertante condizione, unita al successo economico, ha privato il Giappone dell’immaginazione per produrre un qualsiasi altro principio che non sia inseguire economicamente gli Stati uniti.
Prima della guerra il Giappone ha visto sé stesso come il liberatore dell’Asia, è stata superata questa idea?
Questa visione anteguerra chiamata Panasiatismo considerava il Giappone come l’unica nazione in grado di modernizzarsi in Asia e in grado di agire quale liberatore del continente dall’imperialismo delle potenze occidentali. Questa idea, seriamente danneggiata dalla sconfitta, è stata a lungo tempo vista come una stupidaggine di estrema destra o dei revisionisti storici.
Di recente, però, il tabù del Panasiatismo è caduto e questo mostra ancora una volta il diffondersi dell’atteggiamento psicologico della negazione della sconfitta.
Perché la storia è un tema ancora così caldo in Asia?
Una ragione profonda è l’atteggiamento del Giappone verso le altre nazioni asiatiche, soprattutto nell’arroganza di certe espressioni di revisionismo storico da parte di eminenti figure politiche. Nonostante i leader delle altre nazioni asiatiche cedano alla tentazione di sfruttare i problemi storici per strumentalizzare il sentimento antigiapponese, non possiamo negare che l’occasione gli venga offerta in molti casi proprio dai nostri politici.
Il revisionismo è al centro della visione politica di Abe, che supporto trova nella società?
Per lungo tempo il revisionismo trovava supporto solo presso le generazioni educate prima della guerra, così si credeva che col tempo si sarebbe naturalmente estinto. Dal 2000 ha trovato, invece, nuovi giovani sostenitori in misura sempre più larga. In questo vedo due cause. La prima, che non riguarda solo il Giappone, è che la popolazione esposta all’inquietudine causata dalle politiche neoliberiste cerca nella nazione il proprio rifugio. La seconda è prettamente giapponese. I discorsi aggressivi non riguardano quasi mai gli Stati uniti, la nazione che più d’ogni altra ha materialmente distrutto le nostre città e ucciso i nostri concittadini, ma le altre nazioni asiatiche. Questo nasce da un senso perverso di razzismo, per il quale parte del Giappone non accetta che altre nazioni in Asia possano modernizzarsi e ottenere un riconoscimento pari a quello delle nazioni occidentali nel sistema internazionale.
Dove può portare il revisionismo di Abe se portato alle sue estreme conseguenze?
Il nocciolo duro del gruppo dirigente all’origine della «sconfitta permanente» ha avuto la volontà politica costante di aprire la strada all’aumento e all’utilizzo del potenziale militare del Giappone, non importa chi fosse presidente degli Stati uniti. Non perdono occasione per raggiungere questo obiettivo. Il risultato più probabile è un militarismo anteguerra in miniatura, privo di autonomia, poiché gli Usa, almeno finora, non sembrano voler abbandonare il controllo sulle forze militari giapponesi.
Nei suoi libri lei ha parlato del ruolo dell’istruzione, come affrontano il tema i libri di scuola?
La maggior pare dei testi scolastici è di grande qualità e tratta in modo oggettivo le questioni storiche controverse. Quello che gli insegnati lamentano è la limitatezza delle ore dedicate alla storia contemporanea. Aggiungo il declino degli standard di conoscenza storica richiesta negli esami di ammissione alle università.
Il 3 novembre ricorreva il settantesimo anniversario della Costituzione giapponese, che bilancio storico ne fa?
Mancando un senso storico della sconfitta è mancata la necessità di un rinnovamento profondo della società. Questo ha definito, nel dopoguerra, la natura superficiale dei valori di democrazia, libertà ed eguaglianza. Non posso dire, anzi, che ci siano mai veramente entrati. Il caso più eclatante è la disastrosa situazione dei principali media giapponesi dopo l’elezione di Abe, che si sottraggono alla funzione di controllo del potere politico. Questa è la fondamentale debolezza della società civile giapponese.
Vede una crisi dell’idea del Giappone come shinshu (神洲), «nazione divina»?
Questa è una questione cruciale sulla quale scriverò per esteso nel mio prossimo libro. Il fatto che l’imperatore abbia espresso il volere di abdicare proprio quando la procedura di revisione della Costituzione sta per iniziare significa che concepisce la crisi della democrazia del dopoguerra come crisi del sistema imperiale, nel quale egli è simbolo dello stato. Questo sistema è un lascito statunitense e con il tempo la subordinazione agli Usa e un assetto democratico diventano sempre meno coerenti. Per questo la sua dichiarazione può essere letta come un tentativo di salvare gli elementi democratici della storia giapponese moderna.