il manifesto 24.11.16
Cina
«Nulla di immobile sfugge agli affamati denti dei secoli»
Cina.
Al posto di una «creazione» a Pechino vive l’idea di un ritmo ciclico,
circolare, dove «ciò che viene percepito come primario è il mutamento»
di Paolo De Troia
Non
è semplice discutere della concezione del passato in Cina, un paese nel
quale l’idea stessa dello scorrere del tempo è radicalmente diversa da
quella occidentale: al posto di una creazione, di un inizio e di uno
svolgersi progressivo, in Cina vi è l’idea di un ritmo ciclico,
circolare, dove «ciò che viene percepito come primario è il mutamento».
La Cina è vista da noi occidentali come una civiltà raffinata oltre ogni
dire ma soprattutto antica, millenaria, ed erroneamente considerata
immobile e uguale a se stessa, un susseguirsi di dinastie e imperatori,
scaltri mandarini e cortigiane spietate.
Da
non storico, ma filologo e studioso della storia culturale, mi limiterò a
condividere alcune suggestioni su questo argomento. Moltissimi altri,
meglio di me, hanno scritto e scriveranno parole più profonde e
definitive. La prima riflessione riguarda l’importanza del passato nella
cultura cinese, la seconda prende in considerazione quanto le tracce
materiali di questo passato così importante siano, per contro, poco
evidenti. In riferimento al concetto di passato in Cina il primo
pensiero va ad un frammento dei Dialoghi del buon vecchio Confucio: «Chi
ravviva il passato e conosce il presente può davvero essere considerato
un Maestro». Quindi, per comprendere il presente, non solo bisogna
conoscere il passato, ma anche ravvivarlo, ripercorrerlo. Il verbo
utilizzato in cinese nell’espressione «ravvivare il passato», wen gu, è
wen 温, che letteralmente significa «riscaldare», riscaldare qualcosa che è diventato freddo, dargli nuova vita.
Un
altro significato del termine wen è quello di «ripetere», «rivedere»,
nel senso di ripassare, studiare di nuovo qualcosa che si conosce già,
pratica assai cara al pensiero confuciano. Questa lettura di Confucio è
un punto di partenza obbligato per riflettere sul passato in Cina,
poiché egli ha influenzato come nessun altro la cultura cinese. Per
migliaia di anni è stato venerato come «saggio supremo» e la sua
dottrina «ha permeato la cultura cinese fin quasi a identificarsi con
essa ed ha costituito la base su cui l’impero cinese ha poggiato e s’è
retto fino al nostro secolo».
Per Confucio
il passato non soltanto è positivo, utopizzato in una mitica età
dell’oro che spesso ricorre nel pensiero del filosofo, ma è soprattutto
un passato imprescindibile, necessario per capire e vivere correttamente
nel presente, addirittura per essere in grado di proclamarsi «maestro».
Secondo
la tradizione, se prendiamo in esame ad esempio il canone Confuciano,
solo un’opera, in realtà, rappresenta il pensiero di Confucio. La
maggior parte sono testi più antichi che, presumibilmente, il filosofo e
i suoi discepoli recuperarono, selezionarono, commentarono e diffusero.
Confucio infatti non pretese di creare una nuova dottrina ma soltanto
di «trasmettere la saggezza del passato, onde servirsene come regola del
presente». «Non sono nato con la conoscenza innata, ma amo l’antico e
mi impegno nell’investigarlo», affermava.
Questa
visione del passato come strumento, elemento continuamente riproposto
per capire il presente, ha influenzato in maniera decisiva la visione
della storia in Cina. La storia, per noi occidentali, generalmente è o
dovrebbe essere «l’esposizione ordinata di fatti e avvenimenti umani del
passato, quali risultano da un’indagine critica volta ad accertare sia
la verità di essi, sia le connessioni reciproche per cui è lecito
riconoscere in essi un’unità di sviluppo». In Cina la storia è forse più
definibile come una narrazione dei fatti del passato, memoria e cronaca
degli avvenimenti, spesso utile a coloro che la compilavano in quello
specifico momento.
La nascita della
storiografia (scrittura della storia) è dovuta ai grandi storici
dell’epoca Han (206 a.C.-220) che composero lo Shiji o Memorie di uno
storico, di Sima Qian, e lo Han Shu, o Annali degli Han, ad opera di
diversi membri della famiglia Ban. Questi due lavori, che rimangono i
più pregevoli da un punto di vista letterario, furono presi a modello
nelle epoche successive per la composizione di quello che diventerà un
vero e proprio tratto distintivo della civiltà cinese: le storie
dinastiche. Quando una nuova dinastia saliva al potere si occupava di
scrivere la storia della dinastia precedente che veniva poi diffusa come
cronaca ufficiale con l’imprimatur dell’imperatore.
La
scrittura era quindi un potente strumento di legittimazione del potere.
In questo modo sono state pubblicate venticinque storie dinastiche, un
corpus immenso di narrazioni storiche che nessun’altra civiltà al mondo
possiede. Un bagaglio storico e culturale enorme, che ha sempre occupato
un posto di primo piano nella cultura cinese. Un bagaglio pesante,
ingombrante che fu rimosso per un breve periodo in epoca moderna a causa
degli sconvolgimenti politici e sociali della Repubblica Popolare
Cinese. Oggi questo bagaglio culturale è ritornato prepotentemente alla
ribalta in una sorta di riavvicinamento al passato che è avvenuto in
Cina a partire dalla fine del secolo scorso e che vede oggi, ad esempio,
gli Istituti Confucio in prima linea nella diffusione della lingua e
della cultura cinese nel mondo.
La Cina è un
paese nel quale il passato ha occupato per millenni una posizione
centrale. E noi, da osservatori stranieri, esterni a questa civiltà,
sempre abbiamo percezione della presenza di questo passato in tutte le
sue manifestazioni culturali, dalla letteratura, penso a gran parte
della poesia -la «danza in catene» di Wen Yiduoper secoli perfettamente
codificata e regolata da schemi tonali e semantici, o a numerose
espressioni della pittura, anch’essa costituita da temi che appaiono ad
uno sguardo non esperto simili nel tempo. Ma, secondo alcuni, per chi
studia la Cina e la sua cultura antica avviene ad un certo punto un
fenomeno spiazzante di straniamento, e cioè quel paradosso, quel momento
in cui il sinologo, o anche il semplice viaggiatore colto, dopo aver
letto e studiato sui libri, dopo aver sentito, toccato quasi, attraverso
l’osservazione indiretta, questo imponente senso del passato che
trasuda da tutto ciò che ha a che fare con la Cina, per la prima volta
ha la possibilità di mettere piede nel Regno di Mezzo, e scopre che,
almeno in apparenza, al posto dell’imponente passato che ci si attendeva
finalmente di incontrare c’è… un apparente, spiazzante, metaforico
vuoto.
Questo paradosso, vale a dire la
pesante eredità culturale e spirituale del passato contrapposta ad una
quasi apparente assenza di eredità materiale, è stato raccontato
magistralmente dal sinologo Simon Leys, aka Pierre Ryckmans, (conosciuto
dal pubblico italiano grazie al lavoro di Carlo Laurenti per i tipi di
Irradiazioni, 2004), nel saggio «The Chinese attitude towards the Past»,
presentato inizialmente nel 1986 ad una conferenza e pubblicato nel
1991 a Parigi nel volume L’humeur l’honeur l’horreur da Édition Laffont.
Leys sostiene l’esistenza di questo paradosso e racconta di una Cina
dove la presenza del passato è continua e costante: innanzitutto nella
sua lingua, rimasta immutata in alcune sue manifestazioni da più di
duemila anni; nei giardini d’infanzia, dove i bambini recitano in coro
poesie vecchie di dodici secoli; nella toponomastica che rimanda alla
memoria di regni e dinastie antichissimi («permanenza dei nomi»), nella
sua cucina e nelle sue pietanze che si ritrovano identiche ad oggi negli
scavi archeologici di reperti di venti secoli addietro, e in tantissimi
altri esempi che, come Leys afferma, potrebbero essere elencati
all’infinito.
Per contro, questo passato
risulta perlopiù inafferrabile poiché la Cina sembra, ad una prima
osservazione, priva di un gran numero di monumenti antichi. «Il passato è
fisicamente assente nel paesaggio cinese, al punto da sconcertare il
viaggiatore occidentale colto, soprattutto se quest’ultimo affronta la
Cina fondandosi sui criteri abitualmente adottati nei paesi europei». In
Occidente, le vestigia del passato, argomenta Leys, «formano una catena
ininterrotta che perpetua la memoria del passato nel cuore stesso delle
città moderne. In Cina, invece, ad eccezione di un piccolissimo numero
di celebri complessi (la cui antichità, del resto, è molto relativa),
ciò che colpisce il visitatore è la monumentale assenza del passato».
Leys
nel suo saggio, che tratta in maniera assai più articolata il problema –
ad esempio il gusto per l’antichità che sempre ha caratterizzato il
popolo cinesee che qui purtroppo non è possibile riassumere per intero,
cita Victor Segalen (1878-1919), celebre sinologo francese che
stigmatizzò l’atteggiamento dei cinesi nei confronti del passato in un
poema, Aux dix mille années (1912). Leys commenta il poema che, secondo
lui, è una «meditazione sul modo in cui la Cina ha tentato di
sconfiggere il tempo».
«I monumenti del
mondo non cinese – dall’antico Egitto all’Occidente modernorappresentano
il tentativo di sfidare i secoli in modo attivo e aggressivo: si tratta
in questo caso di costruire per l’eternità, adottando materiali (…) che
offrono la migliore resistenza al tempo. Ma, in tal modo, i costruttori
riescono solo a differire la loro ineluttabile disfatta. I cinesi, in
compenso, hanno capito che ‘nulla di immobile sfugge agli affamati denti
dei secoli’. Così essi hanno preferito cedere al suo impatto in modo da
poterlo meglio piegare e neutralizzare».
I
cinesi scelsero quindi materiali deperibili, l’architettura cinese
«possiede una sorta di ‘inbuilt obsolescence’». I cinesi, secondo Leys,
concepirono «la teoria che poteva esistere una sola forma di
immortalità, quella che conferisce la storia. In altri termini, la
sopravvivenza [al tempo, n.d.a.] non va ricercata nel sovrannaturale né
può fondarsi sui monumenti e le cose – l’uomo non può sopravvivere che
nell’uomo, vale a dire, in pratica, nella memoria dei posteri,
attraverso lo strumento della scrittura. (…). La perennità cinese non
vive nelle pietre ma nelle persone». E nelle loro parole.