il manifesto 24.11.16
Bersani: resterò nel Pd. Congresso, la tesi di marzo
Democrack. Renzi e l'ipotesi di assise anticipate per andare subito al voto. Ma con qualche rischio di troppo
di Daniela Preziosi
ROMA
«Se vincerà il sì io rimango. Il Pd è casa mia». Non è la prima volta
che l’ex segretario Pier Luigi Bersani lo dice. Ma negli ultimi giorni,
nelle sue tante iniziative per il No – ieri era a Torino – «l’unità del
Pd» è diventato un mantra, un concetto da ripetere ossessivamente, da
fare entrare bene alle orecchie di amici e nemici interni. Roberto
Speranza fa lo stesso: ieri ha ripetuto di voler costruire
«un’alternativa a Renzi perché abbiamo perso tanti militanti che non si
riconoscono in lui». Ma se vince il Sì è chiaro che la minoranza interna
sarà ridotta a una minoranza silenziosa. Il punto è cosa succede se
vince il No.
Messaggio numero uno: altro che
scissione e ’fuori fuori’. Nessuno, fra i parlamentari, intende seguire
D’Alema nell’ipotesi per ora vaga di una nuova ’cosa’ a sinistra.
Quanto all’aggregazione a cui lavora l’ex sindaco Pisapia, è un’altra
cosa: inutile se viene inglobata nel Pd, utile se riesce a intercettare
un po’ di sinistra radicale ora che Renzi si è riconvertito alle
alleanze. Ma questa sarà un’altra storia.
Messaggio
numero due: Renzi metta da parte gli scenari apocalittici. Lo traduce a
chiare lettere un altro dirigente della minoranza: «Renzi abbandoni il
personalismo, accetti di restare al governo. Poi ci sarà il congresso:
che è il percorso ’naturale’ di un partito che conserva una sua visione
unitaria». È l’unica strada per evitare che il Pd si trasformi in Beirut
e viceversa il Nazareno renziano in Fort Alamo. Il rischio è che il
referendum, comunque vada, cambi la natura del Pd», è la conclusione.
Nel
caso di un Renzi ’responsabile’ Bersani offre collaborazione: «Ho dato
50 voti di fiducia, tranne che sulla legge elettorale e sono pronto a
darne un’altra ventina», assicura. Bersani si riferisce innanzitutto ai
voti di fiducia che servirebbero per approvare la manovra, magari dopo i
rilievi provenienti dall’Europa. Che non si annunciano teneri. Poi ci
sarà da riscrivere la legge elettorale, un percorso che difficilmente si
potrà chiudere in poche settimane. Ormai dalla stessa cerchia renziana
viene esclusa l’ipotesi di un governo Padoan, ministro di Renzi al quale
il Pd avrebbe difficoltà a staccare la spina. Meglio, è il
ragionamento, un governo istituzionale a guida del presidente del Senato
Pietro Grasso, verso il quale il Pd – core ingrato – non sente alcun
obbligo di lealtà. Per andare presto al voto.
Ma
questa strada ha i suoi rischi. In questi giorni al Nazareno si
prendono le misure con l’ipotesi di elezioni prima dell’estate, avanzata
esplicitamente da Lorenzo Guerini. Per il Pd sarebbe difficile andare
al voto senza passare per un congresso. «Sarebbe un colpo di mano»,
avvertono quelli della minoranza. Servirebbe anticipare le assise, da
ottobre – la scadenza naturale – a fine marzo, al massimo gli inizi di
aprile. Quella di Renzi è la stessa idea di Gianni Cuperlo («Congresso
rapido, congresso subito»). Ma è un’ipotesi che ha alcune
controindicazioni.
Anche archiviando il
previsto cambio di statuto (era in programma una messa a registro delle
primarie) fra il voto dei circoli e quello dei gazebo le operazioni non
potrebbero concludersi prima di due mesi. E così si arriva a fine
maggio. Per poi andare al voto a giugno, con la campagna elettorale più
breve della storia della Repubblica? Non impossibile, ma certo non
sarebbe la road map più sicura per un Renzi che, fatto un passo indietro
dopo il referendum, volesse avere la certezza di farne due avanti per
tornare a Palazzo Chigi.