il manifesto 20.11.16
Maurizio Ferraris:
«Il voto a Trump una grande imbecillità, quello italiano meno spettacolare»
Intervista/
Il filosofo del nuovo realismo. Ci si occupa di questioni che
dovrebbero essere infime o ridicole. Come Francischiello che nel 1859
pensò bene di cambiare le uniformi all’esercito. Bisogna essere molto
imbecilli per credere che la rete in quanto tale sia un agone
democratico
intervista di Daniela Preziosi
Filosofo,
docente all’università di Torino, Maurizio Ferraris ha appena
pubblicato per il Mulino un saggio dal titolo L’imbecillità è una cosa
seria. Gli chiediamo di applicare la sua lettura al dibattito politico
italiano e non solo. Che spesso appare una cosa grave, ma al contrario
non seria.
Lei ha definito l’elezione di Trump «una grande pagina
nella storia dell’imbecillità». Come giudica la campagna referendaria
italiana?
Molto meno spettacolare. L’imbecillità in politica tocca
i suoi vertici con Mussolini che con occhi roteanti annuncia l’entrata
in guerra e gli imbecilli lo inneggiano, con Goebbels che chiede ai
tedeschi se vogliono la guerra totale e questi coralmente dicono di sì,
che la vogliono (il bello è che a differenza degli italiani facevano sul
serio). Ha momenti significativi in Hollande in vespa, in Tejero con il
tricorno e la pistola alzata, in Bossi in canottiera, nel premier
polacco Kaczynski che impone al pilota di atterrare con un tempo da lupi
e si schianta, in Berlusconi prefatore plagiario di Thomas More, nelle
poesie di Bondi e nei canti “Per fortuna che Silvio c’è”. Niente di
simile nella campagna in corso.
Il 4 dicembre voterà Sì o No?
Non
ho deciso, e mi chiedo se mi deciderò mai. Mi interessa tanto poco
quanto il precedente sulle trivelle, e quanto tutti i referendum che lo
hanno preceduto con la sola esclusione di quello sul divorzio. Nel
momento in cui gli stati nazionali dovrebbero scomparire per lasciar
posto all’Europa – ma temo che l’occasione storica sia ormai sfumata,
perché nessuna élite nazionale ha voluto cedere potere, condannandosi
peraltro all’impotenza, comportamento che mi sembra ascrivibile alla
sindrome che stiamo studiando – ci si occupa di questioni che, agli
occhi di una grande politica, dovrebbero essere infime o ridicole.
Quando, tra pochissimo, ci si dovrà occupare di come allestire una forza
militare europea dopo il ritiro degli Stati Uniti, si toccherà con mano
quanto peso politico potesse avere il dibattito sull’opportunità o meno
di una “camera delle rappresentanze e delle autonomie”. Mi ricorda
Francischiello che nel 1859 pensò bene di cambiare le uniformi del Regno
delle due Sicilie.
Renzi afferma che «il sistema è tutto
schierato con il No». Significa, per esempio, sostenere che la
Confindustria schierata con il Sì è antisistema. Ci si sente un po’
imbecilli ad essere destinatari di questo genere di comunicazione.
È
una sensazione giustissima, ma il presidente fa come tutti gli altri
contendenti dell’agone politico. Si è sempre detto che la prima vittima
della guerra è la verità. Si dovrebbe trovare il modo, alla luce del
trionfo di populismi post-fattuali caratteristico degli ultimi 20 anni,
di rimettere all’ordine del giorno il nesso insolubile tra democrazia e
verità. È molto più importante della questione morale: senza verità non
può esserci democrazia, e le democrazie postfattuali conservano della
democrazia soltanto il suffragio universale.
C’è un’imbecillità di massa, scrive lei, e una di élite. Se ne rintracciano esempi nel dibattito politico di oggi?
L’imbecillità
di élite risale alla notte dei tempi, e anche qui con momenti alti, che
so, proporre brioches al popolo senza pane. Le masse ridevano o si
arrabbiavano, e si sentivano immuni, per loro gli imbecilli erano i
signori, con le loro fisime e le loro debolezze. Gli utopisti politici,
per parte loro, ritenevano che, invece, le masse fossero portatrici del
senso della storia e di valori alti e irrinunciabili, di generosità,
bontà, sapere (la scienza proletaria, variante della sapienza poetica di
Vico). Poi anche le masse hanno avuto espressione politica e mediatica,
e si sono rivelate allo stesso livello di imbecillità delle élite. I
nostalgici dei valori autentici li hanno cercati altrove: nell’alterità
geografica, o nell’animalità, ma non sono sicuro che sia la soluzione
giusta: perché mai un migrante dovrebbe essere immune dall’imbecillità?
Che ruolo ha la Rete in questo dibattito?
Dà
voce, rappresentanza e documentazione potenzialmente incancellabile
all’imbecillità, tanto di élite quanto di massa. «Madamina, il catalogo è
questo». Inoltre procede alla costruzione di post-facts, cioè di
frottole. Quando Chomsky denunciava le menzogne del New York Times non
poteva immaginare che cosa avrebbe fatto il web.
Si confonde la Rete con un agone democratico, anche grazie a una forza come M5S?
Sì,
si confonde, o almeno si confondeva, sull’onda dei miti di trasparenza
che avevano caratterizzato i primi anni della rete. Ora però bisogna
essere molto più imbecilli della media per credere che la rete in quanto
tale, senza dispositivi di verifica, accreditamento, validazione, sia
un agone democratico. Erano più trasparenti (anche perché contenevano
l’80% di verità) gli editoriali di Goebbels sul Völkischer Beobachter.
Ha
scritto: «Noi non siamo affatto più imbecilli dei nostri antenati,
anzi, è altamente probabile che siamo molto più intelligenti di loro».
C’è speranza, dunque?
Ci deve essere. Se noi avessimo la certezza
che l’umanità va verso una imbecillità crescente non ci sarebbe senso
nella storia e “progresso” sarebbe una parola vuota. Ma non è così.
Abbiamo per esempio preso coscienza (almeno in teoria) della necessità
di tutelare l’ambiente o della parità fra i sessi. La gente non va più
al fronte in stato di esaltazione patriottica. Trump parla di cacciare i
clandestini, non di sterminarli, magari dipendesse da lui lo farebbe,
ma sa che quegli imbecilli che lo hanno votato non lo accetterebbero,
mentre gli imbecilli al cubo che hanno votato Hitler lo hanno accettato.
Sbagliando si impara, o altri imparano.