il manifesto 18.11.16
Non lasciamo campo libero ai tanti Trump del mondo
Crolla
il vecchio ordine. La crisi stravolge anche subculture politiche
consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. La situazione è
pericolosa, ma offre anche delle opportunità
di Fulvio Lorefice, Tommaso Nencioni
Sul
segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito
paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È
l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale
di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e
sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama
coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale
sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la
vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate
contro un pugno di donne e bambini migranti.
La crisi attuale,
nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da
Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico
della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti
d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del
secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo
del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si
scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra
imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni
delle classi subalterne. Si produce dapprima una «crisi-spia» del
sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso
alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei
mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della
crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode
con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del
conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi
medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del
precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si
instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.
Il tema
della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle
sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei
Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel
corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente
tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno
«secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei
processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati
di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto
sociale. Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema
è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center,
recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato
econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla
disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal
rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne
è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e
neutralizzare reali istanze sociali.
Lo sfarinamento delle classi
medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia
mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello
dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella
società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i
regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi.
Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del
regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi
bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello
italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V
Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.
Se
il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza
Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle
primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per
dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in
cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate
istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora
inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle
époque.
«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate
pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la
stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo
stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso
personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo
che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga
nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un
avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».
La
caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di
grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità
di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che
le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei
tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.