il manifesto 17.11.16
La Costituzione di un paese normalizzato
di Massimo Villone
L’ineffabile
ministra Lorenzin ci ha consegnato in un talk show serale la notizia
che con la riforma costituzionale Renzi-Boschi cesseranno le attese
interminabili e i divari territoriali che affliggono il servizio
sanitario nazionale, grazie al rientro della sanità nella potestà
legislativa esclusiva dello Stato. Siamo perplessi. Per l’articolo 117
della Costituzione vigente lo stato ha già una potestà esclusiva per i
livelli essenziali delle prestazioni. Inoltre l’articolo 120 attribuisce
al governo il potere di sostituirsi alle regioni e agli enti locali per
la tutela di quei livelli essenziali e per l’unità giuridica ed
economica della Repubblica. Per gli esempi addotti dalla ministra lo
Stato potrebbe intervenire già oggi, senza necessità di alcuna riforma.
Mentre la Renzi-Boschi lascia alle Regioni la «programmazione e
organizzazione dei servizi sanitari e sociali».
Allora, cosa potrà
mai dare in più la riforma ai malati? Farà guarire i malati terminali
di cancro? O magari invertirà la caduta della fertilità, che tanto
preoccupa la ministra? Come per i teorici risparmi derivanti dal nuovo
senato e destinati – a sentir Renzi – ai poveri, la riforma per i malati
non farà proprio nulla. Ma siamo grati al ministro per averci chiarito
quel che potrà e dovrà fare da subito, anche se vince il No.
Le
ragioni delle riforme renziane sono altrove. Le riassumiamo così:
normalizzare le istituzioni e il paese, imbrigliando il dissenso al fine
che non si disturbi il manovratore. Troviamo la prova in due punti
della Renzi-Boschi.
Il primo punto è la clausola di supremazia,
citata anche dal ministro. Su proposta del governo, la legge statale può
entrare in qualunque materia di competenza regionale per ragioni di
interesse nazionale o di unità giuridica ed economica della Repubblica.
Ma abbiamo visto che per l’articolo 120 della Costituzione il governo ha
già un potere di sostituzione. E allora perché?
Una sostituzione
opera su provvedimenti specifici, lasciando per il resto la titolarità
del potere a chi la detiene normalmente. Mentre la clausola di
supremazia consente al legislatore statale di espropriare il potere in
sé, togliendo in via definitiva voce alle istituzioni di autonomia. Su
problemi come le trivelle, l’estrazione del petrolio, le discariche, gli
inceneritori, l’alta velocità, il deposito di scorie nucleari o magari
il ponte sullo stretto, la differenza è sostanziale. Con la nuova
clausola si imbavagliano in via permanente e si normalizzano le comunità
locali. Che il senato cosiddetto «dei territori» non sarebbe in grado
di difendere, essendo il suo voto superato dal diverso voto della camera
proprio per le leggi fondate sulla clausola di supremazia.
Il
secondo punto è il voto a data certa, per cui il governo può chiedere
che un disegno di legge essenziale per l’attuazione del suo programma
sia sottoposto alla pronuncia in via definitiva della camera entro 70
giorni. Si badi: qualunque disegno di legge, entro il termine massimo
indicato.
Ma a ben vedere una maggioranza di governo coesa ha già
oggi tutti gli strumenti per decidere se e quando andare al voto finale.
Elegge infatti il presidente dell’assemblea, i presidenti delle
commissioni di merito, e controlla la conferenza dei capigruppo, che
decide tempi e modi del lavoro d’aula. Una legge contestatissima come il
lodo Alfano impiegò solo ventidue giorni dalla proposta del governo al
voto finale in entrambe le camere. E allora, a che serve la clausola?
Serve
a scrivere con una rigidità che si impone in futuro anche al
regolamento parlamentare che è il governo a controllare l’agenda dei
lavori. Porre un termine finale consente poi, rallentando il passo con
un piccolo ostruzionismo di maggioranza, di arrivare al voto conclusivo
impedendo ogni modifica al testo proposto. Si mette così il bavaglio ai
dissensi di opposizione e ancor più di maggioranza, evitando polemiche
pubbliche e questioni di fiducia magari non prive di rischio. In una
parola, si normalizza l’istituzione parlamento.
Rientra tutto nel
disegno di un popolo bue che vota per scegliere un governo e una finta
maggioranza gonfiata dal premio, tace poi per cinque anni, e ritrova la
voce solo nel successivo turno elettorale.
Hashtag
#popolostaisereno. Capiamo perché piace ai potenti italiani e stranieri
dell’economia e della finanza. Ma a noi No, grazie.