il manifesto 16.11.16
Cancellata la condanna a morte di Morsi per salvare il regime
Egitto.
La Corte di Cassazione ordina un nuovo processo. Così si evita il
rischio di sollevazioni dei Fratelli Musulmani in un periodo di grave
crisi economica
di Chiara Cruciati
Con due
sentenze ieri la Corte di Cassazione ha sia sconfessato (apparentemente)
il governo sia confermato le sue radici. Per prima cosa, ha annullato
la condanna a morte inflitta al deposto presidente Morsi, leader dei
Fratelli Musulmani, e ordinato un altro processo. Imputato ad
un’infinità di processi, quello per cui gli era stata inflitta la pena
capitale riguarda un’evasione di massa dal carcere nel 2011, ordita –
dice l’accusa – con soggetti stranieri tra cui Hamas.
In secondo
luogo la Corte ha rigettato l’appello che si opponeva al rilascio dei
figli di Mubarak, Alaa e Gamal. I due, con il padre, erano stati
condannati a tre anni per truffa e uso di fondi pubblici. Secondo la
corte, sommando gli anni di carcere preventivo a partire dal 2011, i due
hanno già scontato la pena. A monte una più generale amnistia che ha
salvato l’establishment dell’ex dittatore, di cui buona parte è colonna
portante dell’attuale regime a cominciare dall’esercito.
La
cancellazione della pena di morte per Morsi sembrerebbe a prima vista un
colpo alla lotta alla Fratellanza Musulmana, pietra angolare della
narrativa del regime, visto che cancella anche l’ergastolo per cinque
co-imputati tra cui il leader spirituale del movimento, Mohamed Badie:
dal massacro di Rabi’a dell’agosto 2013 (oltre mille sostenitori del
gruppo uccisi) agli arresti di massa dei suoi membri fino alla messa al
bando, Il Cairo del golpe ha intessuto relazioni esterne (in primis con
il Golfo) e si è garantito il sostegno di molti partiti politici del
paese (compresi quelli di sinistra) proprio grazie alla promessa di
disinnescare il cosiddetto pericolo “islamista”.
Con la
repressione della Fratellanza – migliaia di esili, omicidi
extragiudiziali, arresti di cui gli ultimi 229 alle proteste di venerdì –
al-Sisi giustifica il controllo capillare della società civile. In
realtà la sentenza di ieri potrebbe servire i suoi interessi:
l’eventuale condanna a morte accenderebbe proteste difficilmente
controllabili in un periodo di surreale calma.
Il rischio di una
sollevazione viene così elegantemente evitato mentre Morsi resta dietro
le sbarre: rimangono infatti in piedi tutte le altre sentenze di
ergastolo o a 40 e 20 anni inflitte per i casi di spionaggio a favore
del Qatar e di Hamas e l’uccisione di manifestanti nel dicembre 2012.
Un
colpo al cerchio e uno alla botte, confermato dal voto ieri della
Camera che ha approvato la proposta di legge che pone le ong sotto il
controllo governativo, obbligandole a registrarsi e ad accettare lo
scioglimento se l’esecutivo le reputa pericolose.
Il regime non
tira troppo la corda in un periodo di grave crisi economica e rabbia
popolare – per ora – soffocata. Venerdì il Fondo Monetario
Internazionale ha approvato i 12 miliardi di dollari di prestito in tre
anni, ma in pochi credono in un miglioramento delle condizioni di vita.
Soprattutto dopo la svalutazione del 48% della sterlina egiziana che ha
fatto perdere ai salari più della metà del loro valore.