il manifesto 15.11.16
Stephen Bannon, iI «Leni Riefenstahl dei Tea Party» alla Casa bianca
Alternative
Right. Sessantadue anni, ex ufficiale di Marina passato per Goldman
Sachs, qualche esperienza come produttore a Hollywood, già consigliere
di Sarah Palin, Bannon è infatti una figura di rilievo dei nuovi media
di destra che premono da anni sui repubblicani perché assumano posizioni
intransigenti e combattano apertamente il politicamente corretto specie
sui temi razziali
di Guido Caldiron
Quando tutti
consigliavano a Donald Trump, in caduta libera secondo i sondaggi
ufficiali, poi dimostratisi inattendibili, di moderare i toni e tornare
con maggiore cautela su alcune delle sue proposte più violente e
oltraggiose, lui scelse al contrario di chiamare accanto a sé Stephen
Bannon, noto per essere una delle voci più aggressive della cosiddetta
alternative-right, la nuova destra culturale statunitense, che suggerì
al miliardario newyorkese di proseguire nella strategia d’attacco che
gli aveva già consentito di scalare le primarie del Partito
repubblicano.
All’epoca, a soli due mesi dalle elezioni, questo
discusso personaggio era stato chiamato in tutta fretta a sostituire
come consigliere particolare di Trump il lobbista Paul Manafort, già
collaboratore di dittatori e «uomini forti» di mezzo mondo, inguaiato da
un’inchiesta della magistratura ucraina che lo accusava di aver
ricevuto cospicui finanziamenti illegali dal partito pro-russo dell’ex
premier di Kiev Yanukovych. Ora che anche grazie a quel suggerimento
Trump è arrivato alla Casa bianca, un comunicato del suo staff ha
annunciato che Bannon sarà nominato consigliere del presidente e capo
della strategia politica nazionale e internazionale, ovvero la figura
più importante, anche se non visibile a prima vista, della nuova
amministrazione.
Se i nomi fin qui circolati, tra banchieri di
Wall Street coinvolti nel crack dei mutui subprimes del 2008 e vecchie
glorie del mondo repubblicano, a partire da Newt Gingrich e Rudy
Giuliani, fanno pensare più ad una restaurazione conservatrice che ad
una rivoluzione populista, è chiaro come il ruolo, per quanto informale,
che spetterà a Bannon ne ribadisce il carattere radicale e in
prospettiva «rivoluzionario» dello status quo della democrazia
americana.
Sessantadue anni, ex ufficiale di Marina passato per
Goldman Sachs, qualche esperienza come produttore a Hollywood, già
consigliere di Sarah Palin, Bannon è infatti una figura di rilievo dei
nuovi media di destra che premono da anni sui repubblicani perché
assumano posizioni intransigenti e combattano apertamente il
politicamente corretto specie sui temi razziali. Arrivato alla guida del
sito di informazione Breitbart News dopo la scomparsa del fondatore
Andrew Breitbart che lo aveva ribattezzato il «Leni Riefenstahl dei Tea
Party», Bannon ha trasformato questo giornale online in unostrumento di
battaglia politica sostenendo prima il movimento anti-tasse e anti-Obana
e quindi la candidatura di Trump. «Il mio obiettivo – ha spiegato il
neo-consigliere del tycoon – è sempre stato quello di costruire un sito
d’informazione di destra, populista e anti-establishment».
Già
megafono dei Tea Party, strumento di diffusione di ogni sorta di teoria
complottista, contrario all’aborto, al punto di paragonare il Planned
Parenthood all’Olocausto, e anti-femminista in modo viscerale, Breitbart
News ha sposato fin dall’inizio la crociata di Trump contro i vertici
repubblicani, facendo eco alle denunce del miliardario sul loro
asservimento ai grandi gruppi economici favorevoli alla globalizzazione e
ha sostenuto la sua crociata contro gli immigrati messicani. Durante le
primarie del Gop, il sito ha preso di mira lo speaker repubblicano
della Camera, Paul Ryan, inviando dei corrispondenti a casa sua nel
Wisconsin, per accusarlo di aver costruito una recinzione attorno
all’abitazione, mentre critica il muro con il Messico proposto da Trump.
Stephen
Bannon in persona ha prodotto documentari a sostegno della «causa». Nel
2004, In the Face of Evil, un omaggio alla figura di Ronald Reagan; nel
2010, Battle for America, una celebrazione del Tea Party; nel 2011, The
Undefeated sull’ex governatrice dell’Alaska e beniamina del partito del
tè, Sarah Palin; l’anno seguente, Occupy Unmasked, rozzo attacco al
movimento Occupy Wall Street, presentato come una banda di black blok.
Inoltre, come cofondatore del cosiddetto Government Accountability
Institute, nato per denunciare «le malefatte» dell’amministrazione
Obama, sta attualmente lavorando alla versione cinematografiuca del
libro di Roger Stone, altra figura ponte tra il Gop e gli ambienti
radicali, sui presunti finanziamenti illeciti ricevuti da Hillary
Clinton.
Come ha scritto il New York Times, la decisione del
tycoon di affidare ad un «provocatore» come Stephen Bannon l’ultima
parte della sua campagna elettorale, ha segnalato la volontà di Trump
non solo di non recedere fino all’ultimo «dall’arroganza e dalla carica
razziale dei suoi interventi», ma di realizzare al contrario la piena
fusione «tra la sua candidatura e i più aggressivi tra i nuovi media di
destra che ne hanno incubato e promosso l’ascesa, assicurandogli la loro
chiassosa copertura di ogni sua iniziativa». Ora quei messaggi di odio
partiranno direttamente dalla Casa bianca.