il manifesto 15.11.16
Trump, il populismo e la misura del consenso
Pane
e pace, il populismo socialista. Con The Donald la riflessione di oggi,
come ai tempi della I Internazionale, dovrebbe ripartire dal controllo
del mercato del lavoro
di Paolo Favilli
«Ci fu un
momento più populista di quello in cui 99 anni fa qualcuno gridò ’pace e
pane’»? Si tratta di un’affermazione di Pablo Iglesias, leader di
Podemos (Publico.es, 9 novembre). «Trump ha vinto sulla base di due
parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e
pane». Così ha scritto su questo giornale (12 novembre) Leonardo Paggi.
Mi sembra del tutto evidente che né Iglesias, né Paggi suggeriscano
analogie forti tra Trump e Lenin. Entrambi usano l’analogia come
iperbole concettuale, in grado di cogliere affinità tra contenuti assai
diversi.
Dice ancora Iglesias: «Il populismo non definisce le
opzioni politiche, ma i momenti politici». I populismi sono, per
eccellenza, parametri di definizione e di svelamento delle crisi, in
particolare di quelle di lungo periodo come l’attuale. Il populismo di
Trump, e di tante sue varianti europee, ha certamente tratti
parafascisti, ovviamente in contesti (e forme) del tutto diversi dal
fascismo storico, ma ci mostra con chiarezza che non esistono
possibilità di sbocchi della crisi a «sinistra» senza popolo.
È
ancora particolarmente attuale la questione che il responsabile esteri
del Partito comunista cinese pose a Bertinotti nel dicembre del 2005:
«Mi spiegate come mai vista la vostra intelligenza, poi nel vostro
Paese, quando andate alle elezioni prendete poco più del 5 per cento?».
Ed oggi anche il 5% è un obbiettivo ambizioso. Ebbene, Paggi nel suo
articolo è proprio di questo problema che parla.
Se la nostra
sinistra da quel 5%, peraltro nemmeno garantito, vuole iniziare con
coerenza e rigore il difficile percorso necessario per acquisire una
forza reale, può farlo senza entrare in una comunicazione non
monodirezionale con il popolo degli sconfitti dall’attuale fase di
accumulazione del capitale? Senza partire dalle condizioni materiali di
quel popolo e dagli effetti che quelle condizioni materiali hanno sui
modi di espressione politica?
Per questo non basta la critica al
neoliberismo e/o all’ordoliberismo, ma è necessario che questa critica
coniughi gli aspetti generali dell’analisi con un ri-pensamento di
alcune categorie interpretative di questo nostro presente. Ri-pensarle
alla luce della possibilità di proposte politiche che siano chiaramente
riferibili al complesso delle condizioni materiali di quel popolo che
vorremmo ancora nostro.
Ed allora categorie come cosmopolitismo,
europeismo, unità monetaria dell’Europa, forme di autonomia nazionale,
vanno sottoposte al vaglio di una critica realistica, alla pietra di
paragone degli effetti di disgregazione che la loro interpretazione
dominante ha avuto sulla vita dei subalterni.
Paggi cita assai
opportunamente Karl Polanyi a proposito della necessità di difendere
umanità e democrazia dalle tendenze strutturalmente distruttive della
società di mercato. Vorrei ricordare che Polany chiama «socialismo» tale
azione di autodifesa.
Lo stesso fenomeno delle migrazioni deve
essere pensato nella coniugazione delle forme del loro governo. È
problema difficilissimo che scuote alle fondamenta la nostra ragione e
la nostra coscienza. Ma non possiamo più permetterci di affrontarlo
soltanto attraverso pur lodevoli petizioni di principio.
Per certi
aspetti si ripropone oggi, in condizioni non certo paragonabili, il
problema dell’incontro avvenuto nella seconda metà del XIX secolo, tra
movimento operaio, socialismo, teorie critiche del capitalismo. Sarebbe
il caso di non dimenticare che uno dei momenti iniziali di quel
percorso, il momento fondamentale, fu la fondazione della I
Internazionale. Alle origini del meeting tra organizzazioni operaie
francesi e Trade Unions, confronto preliminare alla fondazione
dell’Internazionale, fu la questione del controllo del mercato del
lavoro, a partire dalle possibilità per le Unioni di impedire
l’esportazione di lavoro francese (allora nella forma del crumiraggio)
in Inghilterra.
Possiamo ignorare una questione, il controllo del
mercato del lavoro, che è quasi consustanziale alle ragioni fondative
dell’organizzazione operaia?