il manifesto 13.11.16
America in marcia contro Trump. Spari a Portland
Fa
la cosa giusta. Decine di migliaia di persone sfilano contro l’elezione
del tycoon. Corteo imponente a New York, tra la folla anche Micheal
Moore
di Marina Catucci
NEW YORK Come era
prevedibile, il primo fine settimana dopo l’elezione di Trump ha visto
una serie corposa di manifestazioni. Ancora una volta gli americani che
non hanno votato per il tycoon newyorchese e che lo considerano
pericoloso, sia internamente che esternamente, sono tornati per strada
al grido di «tu non sei il mio presidente».
Questa serie di
manifestazioni arriva dopo quasi una settimana di mobilitazioni in tutti
gli Stati uniti, da Boston a Dallas, a Chicago a New York. Solo la
notte precedente, tra venerdi e sabato, alcune migliaia di persone
avevano manifestato a Miami, bloccando più volte le interstatali che
passano per la città, così come anche ad Orlando, nel nord della
Florida.
La maggior parte dei cortei e delle azioni si sono svolte
in modo pacifico, le eccezioni maggiori sono in costa ovest con gli
scontri di Oakland e più di tutto quelli di Portland, in Oregon, dove è
avvenuto uno scontro tra un uomo in una macchina e un manifestante anti-
Trump terminato con dei colpi di arma da fuoco sparati dal guidatore.
La
polizia presente sul luogo ha subito soccorso la vittima, ma non è
riuscita ad arrestare il sospetto, descritto come un uomo alto, nero,
vestito con una felpa con cappuccio e dei jeans. Un testimone che è
stava trasmettendo la manifestazione in diretta su Facebook, ha detto
che il confronto era iniziato dopo che i manifestanti avevano
«riconosciuto l’autista nell’auto come una persona già vista durante le
proteste, coinvolta nel danneggiamento di pubblici esercizi, in
saccheggi e negli scontri che si sono visti negli ultimi due giorni».
A
Portland, città ancora chiamata «Piccola Beirut» per via della sua
storia di proteste e rivolte vigorose, durante le prime due notti le
manifestazioni si erano svolte con calma. Durante la terza notte,
invece, come raccontano gli attivisti e gli organizzatori, la folla è
cambiata e l’agitazione ha preso una piega violenta. Secondo la polizia
la protesta di giovedì era «ormai una rivolta» a causa di quello che i
funzionari hanno definito «un comportamento criminale e pericoloso».
Le
autorità hanno cercato di dividere i manifestanti pacifici da quelli
che stavano distruggendo proprietà private e pubbliche con mazze da
baseball, e sono passate ad utilizzare spray al pepe e pallottole di
gomma.
«Possiamo essere certi che queste proteste cresceranno nel
prossimo futuro – ha affermato TV. Reed, professore universitario del
Minnesota e autore del libro «L’arte della protesta» – Vari gruppi, i
movimenti, si preparano a resistere a tutte le politiche della nuova
amministrazione che minacciano le persone stigmatizzate da Trump o che,
come suggerisce l’evidenza scientifica, accelereranno la catastrofe
ambientale.
Bloccare il traffico e altre tattiche simili, sono a
simboleggiare che le politiche della nuova amministrazione incontreranno
un’opposizione vigorosa e massiccia e non ci sarà spazio di movimento
per il fanatismo, il razzismo, la xenofobia e la misoginia che sono
stati dilaganti nella campagna di Trump». Al momento sono in programma
manifestazioni per settimane, alcune imponenti come la Million Woman
March prevista per il 21 gennaio, giorno immediatamente successivo
all’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
In questo scenario la
piazza più attiva resta quella di New York, dove venerdì alcune migliaia
di persone hanno dato vita al Love Rally, all’insegna della tolleranza
contrapposta alla retorica violenta del neo presidente eletto. Ieri,
invece, si è svolta la manifestazione più imponente dall’inizio di
questa mobilitazione spontanea, più di 10.000 persone hanno risposto al
tam tam nato in rete e il corteo che doveva partire alle 14,30 è partito
prima perché Union square non riusciva a contenere tutti. Direzione: la
blindatissima Trump Tower. Tra la folla anche Micheal Moore a
riprendere con il telefonino.
«Tutto questo sta compattando il
movimento come non mai – dice Mark, tra gli organizzatori – io sono un
occupyer, ho curato, come molti di noi la comunicazione, Ows sa come
portare la gente in piazza e lo stiamo facendo tutti, tutti stanno
mettendo le proprie abilità a disposizione. Ci sono gruppi di attivisti
musulmani ed ebrei che lavorano insieme, con Black Lives Matter, con gli
hacker, con il movimento Lgbtq. Lui vuole dividerci? Guarda il
risultato».
Per la maggior parte delle persone accorse non è la
prima manifestazione, ma molti raccontano di non aver mai sentito
l’urgenza di fare un corteo prima, ma che ora è tutto diverso. «Non
posso stare a casa e guardare in tv Trump entrare alla Casa Bianca e
stringere la mano ad Obama, dopo che per anni ne ha discusso la
legittimità – dice Toby che al corteo partecipa con sua figlia dodicenne
– io sono un maschio bianco americano, ma sono insultato, offeso,
ferito da ogni parola che Trump ha pronunciato in questi mesi. Non è il
mio presidente e nemmeno quello di mia figlia».
La folla che si
riversa per le strade è rumorosa e colorata, non sembra aver intenzione
di smettere di marciare tanto presto. «Saranno 4 anni lunghi –
profetizza Monica, ispanica – e lui potrebbe avere un impeachement anche
prima di gennaio. Come donna, come ispanica, è mio dovere stare in
corteo. Siamo qui per restare».