il manifesto 13.11.16
Paura nei «barrios», gli ispanici scendono in piazza a Los Angeles
California. Non si vedeva una manifestazione così dalle «gran marchas» di dieci anni fa per la riforma dell’immigrazione
di Luca Celada
LOS
ANGELES Le partite di calcio Usa-Messico sono sempre derby emozionali;
quella di venerdì fra le due squadre che si sono incontrate a Columbus,
Ohio, lo è stata un po’ di più, colorata, come un po’ tutto questa
settimana, di un ulteriore simbolismo, con tanto di rissa finale fra i
giocatori che sembrava racchiudere l’astio fra i due paesi fomentato dal
presidente neoeletto.
Fra i gruppi che tentano di dare un senso
agli eventi politici di questi giorni, gli immigrati ispanici sono parte
direttamente interessata: Trump aveva lanciato la propria campagna
definendoli un popolo di stupratori. La sua promessa di «rimuovere
immediatamente» i 12 milioni di immigrati clandestini dal suolo
nazionale, pone gli oltre 50 milioni di ispanici americani nel mirino
del nuovo presidente. In California dove di latinos ne risiedono ben 14
milioni, i talk show in lingua spagnola da 4 giorni dibattono la
minaccia che incombe damoclea sull’incerto futuro.
Il Sud Ovest
americano è una zona storicamente meticcia, qui l’immigrazione è un
fenomeno di massa in cui si mescolano componenti storiche e profughi
recenti. Nelle terre, messicane fino al 1848, la gente dice che il
confine abbia attraversato le comunità ispaniche e non viceversa. A ogni
modo nel vasto quadrante bilingue che va dal Rio Grande in Texas alla
costa californiana, la comunità biculturale ha una presenza storica e
rappresenta una popolazione profondamente integrata nel tessuto sociale
pur nella clandestinità.
A Los Angeles dove 4 milioni di ispanici
(un terzo forse illegali) rappresentano oltre il 50% della popolazione,
il sindaco democratico Eric Garcetti ha partecipato a una messa nella
cattedrale in cui il cardinale José Ignazio Gómez, lui stesso immigrate
messicano, ha fatto appello ai governanti. «La nostra gente soffre e ha
paura», ha detto l’arcivescovo della maggiore diocesi cattolica del
paese. «Da quando ci sono state le elezioni, i nostri figli vanno a
scuola traumatizzati. Credono che il governo si stia per deportare i
loro genitori».
L’angoscia è diffusa, specie nelle famiglie
«miste», in cui spesso i figli nati in America sono cittadini mentre i
genitori sono tecnicamente «clandestini». Viste dai barrios della città
le frequentazioni ideologiche del trumpismo con le frange razziste e
xenofobe delle milizie private suscitano giustificato timore.
Anche
sotto Obama per la verità le deportazioni erano incrementate ma il
presidente aveva anche implementato riforme atte a favorire soprattutto i
dreamers, gli studenti portati piccoli nel paese e che ora sono
universitari o giovani lavoratori pur non avendo mai potuto essere messi
in regola. Per loro, Americani in tutto e per tutto salvo i permessi
ufficiali, Obama aveva istituito una amnistia parziale, il Daca
(Deferred Action for Childhood Arrivals). Trump ha promesso di abolire
immediatamente il provvedimento. E quando si insedierà disporrà della
utile lista dei 581.000 giovani che avevano fatto ricorso al Daca. In
una comunità che ha ancora memoria storica delle espulsioni di massa di
messicani attuate negli anni 30, la prospettiva è a dir poco
inquietante. Gli effetti di una politica simile sarebbero devastanti per
l’intero stato (a partire dall’economia), ragione per cui la senatrice
neoeletta Kamala Harris, come primo atto ufficiale ha organizzato un
incontro con le associazioni di latinos per assicurandoli che «la
California intende proteggere i diritti civili dei propri cittadini, di
ogni etnia, se necessario anche dal governo federale».
Harry Reid,
ex capo della maggioranza e senatore del Nevada, è stato più incisivo
affermando che «i timori (degli spanici, ndr) sono del tutto razionali
alla luce delle esplicite minacce di Trump. Come nazione ci incombe
trovare un modo per avanzare senza relegarli alle tenebre».
Non
hanno certo intenzione di andarci volontariamente, i diretti
interessati. Ieri c’è stata una grande mobilitazione a Los Angeles. Una
manifestazione della maggioranza ombra della metropoli assieme alle
forze progressiste che in California le elezioni le hanno vinte, per
rivendicare la propria visibilità dinnanzi a un potere che dichiara ora
apertamente di volerli cancellare. È stata la maggiore adunata dalle
gran marchas che dieci anni fa portarono nelle strade milioni di persone
in oceaniche manifestazioni per chiedere la riforma dell’immigrazione.
Ieri il senso di urgenza era maggiore, quello di una vera e propria
lotta per la sopravvivenza alla luce di una minaccia senza precedenti.
Nella
folla c’era la netta sensazione che la sostituzione della dottrina
inclusivista di Obama con la nuova discriminazione istituzionale di
Trump costituisca una minaccia concreta per l’esperimento democratico
americano. Una forte sbandata nel percorso storico sui diritti civili.
Strette fra il neoconservatorismo di Bush e l’arcigna restaurazione di
Trump, le riforme di Obama improvvisamente appaiono non come un gradino
sul cammino di un inevitabile progresso, ma potenzialmente come una
fragile stagione progressista stretta fra i torvi regimi di Bush e Trump
(entrambi assurti a scapito del voto popolare).
Intanto in Ohio
la partita di calcio è finita 2-1, la prima volta dal 1972 che alla
squadra degli «stupratori» in trasferta riusciva di espugnare uno stadio
americano in una qualificazione ai mondiali.