il manifesto 13.11.16
La fine dell’illusione democratica
di Fabrizio Tonello
In
un raro momento di sincerità durante la campagna elettorale Hillary
Clinton ha detto: «I am not a born politician, like my husband and
president Obama», non sono un politico nato, come mio marito e Obama. In
effetti è vero: sia Bill Clinton che Barack Obama sono due leader che
entrano immediatamente in sintonia con le folle, piccole o grandi, che
lo ascoltano: di cosa siano capaci lo abbiamo visto infinite volte.
Hillary
Clinton non ha questo talento ma è una che ci prova, che non molla mai,
che lavora 16 ore al giorno e che, presentandosi come il candidato
della continuità in un anno in cui il 53% degli americani voleva il
cambiamento, ha comunque preso più voti del suo avversario. Solo
l’antidemocratico sistema elettorale, non la volontà della maggioranza
degli elettori, ha consegnato la presidenza a Trump sottraendola a lei.
Checché ne dicano molti commentatori, il problema non era il candidato
ma il partito.
E il partito, oggi, non ha leader, non ha
programma, non ha una visione del mondo su cui riconquistare la
maggioranza degli americani. Il solo fatto che nei pettegolezzi
post-elezioni si parli di Michelle Obama come possibile candidato alla
presidenza nel 2020 è il sintomo di una crisi ideale profonda. Erano i
paesi del terzo mondo quelli dove governavano le dinastie politiche: in
Argentina la moglie di Nestor Kirchner dopo la sua morte, in Pakistan il
marito di Benazir Bhutto dopo il suo assassinio, in India Sonia Gandhi
come leader del partito dopo la scomparsa del marito Rajiv (a sua volta
figlio di Indira Gandhi e quindi nipote di Nehru). Oggi il partito
democratico negli Stati Uniti sono le due dinastie politiche Clinton e
Obama, dietro di loro non si vedono leader alternativi.
Quindi le
colpe della dinastia Clinton, e sono molte, non possono assolvere
l’attuale presidente: le elezioni di martedi scorso sono state un
referendum sui suoi otto anni di governo assai più che su Hillary. E il
bilancio che Obama lascia agli americani non è entusiasmante. Come
questo giornale ha scritto infinite volte, i suoi molti meriti non
possono nascondere i problemi che lascia al successore. Sostanzialmente,
l’immenso capitale politico del 2008 è stato investito interamente su
una riforma sanitaria a base privatistica, che ha razionalizzato ma non
intaccato, anzi aumentato, il potere delle assicurazioni private e delle
lobby farmaceutiche.
Molte sono le cose che Obama non ha potuto
fare per l’ostruzionismo repubblicano, dalle infrastrutture bisognose di
intervento alla transizione a un’economia più verde, molte sono state
fatte usando dei poteri della presidenza, dalla parziale chiusura di
Guantanamo agli accordi con Iran e Cuba, ma per l’Americano delle aree
rurali che ha votato Trump il bilancio è modesto, se non negativo.
La
perdita di consensi in Ohio, in Michigan e in Wisconsin non è dovuta
solo alla propaganda dei repubblicani o alla xenofobia e al razzismo dei
bianchi senza educazione universitaria: è il frutto del sentimento di
abbandono di larghe fasce di popolazione che non hanno beneficiato della
globalizzazione che ha portato ad aprire un ristorante di sushi in ogni
isolato a San Francisco o a New York. Chi vive a Youngstown, un tempo
città operaia e bastione del partito democratico, in realtà trae
vantaggio dai bassi prezzi dei supermercati Wal-mart, zeppi di prodotti
cinesi, ma questo è molto meno politicamente comprensibile di quanto non
sia la perdita di posti di lavoro creata dalla globalizzazione.
La
crisi del partito, quindi, è una crisi che viene da lontano, dalla
perdita di parte delle sue basi sociali, inevitabile corollario
dell’accettazione delle politiche neoliberiste che hanno avvantaggiato
alcuni e svantaggiato altri, in una frattura che è prima di tutto
geografica tra città e campagne, tra America costiera e praterie. Obama,
con il suo carisma,la sua intelligenza, la sua retorica, ha mascherato
una crisi dei democratici che viene da lontano, dalle scelte di
subalternità alle politiche di Wall Street e del Fondo Monetario. Obama
ha fatto credere al mondo, e a metà degli americani, che il partito
democratico fosse il partito della pace e del benessere ma non era così e
queste elezioni sono semplicemente state la ratifica della fine di
un’illusione.