il manifesto 12.11.16
Un’America balcanizzata
Dopo il
voto. Trump è il capofila dei birther, il movimento razzista che
contestava l’elezione di Obama, sostenendo che la sua nascita a Honolulu
non era documentata e dunque egli era privo del requisito
indispensabile per essere presidente degli Usa
di Guido Moltedo
Quella
del «nuovo» Trump, del Trump presidential e non più candidato, è una
maschera che sta molto stretta a The Donald. Infatti, tempo un paio di
giorni, se l’è già tolta. Eccolo che riprende a lanciare tweet rabbiosi.
Le proteste contro la sua elezione continuano, dappertutto in America, e
lui reagisce come fa lui, con le contumelie, definendo chi scende in
piazza «manifestanti di professione, incitati dai media». Lo sceriffo
Rudy Giuliani si associa al suo boss chiamandoli «piagnucoloni viziati».
Però, attenzione. Non è solo il day after di uno sconquasso, il trauma a
cui segue la protesta, a cui, a sua volta, segue il solito copione
visto nella campagna elettorale del miliardario fascistoide.
azione
in America è molto più di questo e preannuncia tempi molto duri. Di
conflitto. Persino in prospettiva di guerra civile. Non solo metaforica
in un paese dove girano liberamente centinaia di milioni di armi da
fuoco, più numerose degli abitanti, oltre 350 milioni. Non una guerra
tra le due Americhe. La frattura non è tra due parti, come si sente dire
da americanisti improvvisati, tra le élite urbane e la «pancia». Ma tra
le tante Americhe – culturali, sociali, razziali, religiose – che
compongono il mosaico statunitense e che questa nuova presidenza rischia
di far saltare per aria in mille pezzi, avendo preso a calci il tavolo
su cui è disposto il puzzle. Una balcanizzazione dell’America. O, un
tempo, si sarebbe detto libanizzazione. È vero, l’incontro all’indomani
del voto alla Casa Bianca è stato cordiale e civile. Ma quanti nei siti
di destra, non solo in America, hanno ironizzato sul padrone bianco che
si riprende la casa abusivamente abitata dal nero? È una scena che,
nella civiltà dei modi, infatti non cancella la feroce campagna d’odio
lanciata e finanziata da Trump che ha preceduto la sua discesa in campo.
Trump
è il capofila dei birther, il movimento razzista che contestava
l’elezione di Obama, sostenendo che la sua nascita a Honolulu non era
documentata e dunque egli era privo del requisito indispensabile per
essere presidente degli Usa.
Ma non è solo il vecchio e vitale
razzismo in bianco e nero. Il nuovo presidente americano, che da
imprenditore si era già distinto per le sue pratiche discriminatorie
verso i neri, ce l’ha parimenti con i latinos, con gli islamici, con gli
asiatici, ed è notoriamente misogino. Lui non si sa, ma tutti i suoi
associati, molti dei quali destinati ad avere ruoli importanti nel suo
governo, sono dichiaratamente omofobi. Sono antiabortisti.
Antiambientalisti. Anti-immigrati. E rappresentano un elettorato che in
larga misura si rispecchia in queste posizioni. È definito bonariamente
questo elettorato maggioranza silenziosa. Eppure non si ricorda, a dire
il vero, quando lo sia stata, silenziosa, almeno da Reagan in poi. Oggi è
anche maggioranza politica. È una maggioranza che ha nel suo stesso dna
l’eliminazione di chi non ne è parte. La maggioranza silenziosa che ha
vinto le elezioni è in realtà una minoranza che vuole sottomettere tutte
altre minoranze. Nei giorni scorsi due ragazze a San Diego e San José
sono state aggredite perché indossavano il velo islamico. È accaduto in
California non nell’America profonda che non si sa dove sia. In America
la comunità islamica vive molto più integrata che in Europa. Prima che
arrivasse Trump.
Per la prima volta la silent majority trova in lui un presidente che le dà piena rappresentanza.
Il
rischio di una deflagrazione dell’America è in questa terribile novità,
forse anche prevista, ma, ora che si manifesta in tutta la sua
magnitudine, è estremamente preoccupante.
Gli Stati Uniti sono dai
loro albori terra di immigrati, e hanno continuato a esserlo. È ancora
l’approdo numero uno dell’immigrazione e il suo sviluppo è tuttora
intimamente legato al volano dell’immigrazione. Non solo braccia ma
menti, spesso le menti migliori, da ogni parte del mondo. La
conflittualità ha accompagnato questo percorso, ma quando le tendenze
all’inclusione e alla coesione hanno avuto la meglio, il melting pot che
ne è derivato ha consentito di dispiegare le migliori energie. Barack
Obama ha fatto sempre appello a questa America, fin dal suo primo
discorso alla convention di Boston, nel 2004. Non un appello buonista ma
realista. Ancora più sensato in tempi di crisi, dove è più facile che
la demagogia soffi sul fuoco delle diversità per ridurle a rivalità tra
comunità. Il melting pot è tale se ha una base condivisa su cui
poggiare.
Questo sforzo unitario è stato duramente contrastato
dalla destra e anche, tra i suoi sostenitori, non è stato compreso,
specie quando la sequenza di crimini della polizia contro i neri si è
intensificata. Gli si è perfino attribuita la responsabilità di non aver
fatto abbastanza per i suoi fratelli, lui primo presidente nero, quando
era evidente il contrario: la Casa bianca e i ghetti erano nell’occhio
del ciclone di un’ondata razzista cavalcata dalla destra. Obama, fin dal
suo esordio, è stato il presidente di tutti gli americani, non di una
parte di essi, fossero anche i suoi fratelli ancora discriminati, come
avrebbero voluto i razzisti, per connotarlo, ma anche un certi
paternalismo progressista.
È stato il suo il modo migliore, più
alto, per rappresentarli, quello di essere sempre il presidente di
tutti. Con l’intento morale di portata strategica di tener unite e tra
loro cooperanti le diverse componenti della nazione, unica condizione di
crescita e di sviluppo per tutti, anche per chi vive discriminato nei
ghetti.
Il rovesciamento di questa visione porta Trump a occupare
la sua poltrona. Forte di una maggioranza al senato e alla camera. Le
manifestazioni in corso sono una prima sacrosanta reazione a questo
cambiamento dal carattere epocale. Difficile pensare, si dovessero anche
placare, che il conflitto si fermerà. Più probabile che s’intensifichi.