il manifesto 12.11.16
Per Trump, trema l’America latina
Ripercussioni. Gli interessi del miliardario Usa
di Geraldina Colotti
Nell’America
latina progressista o bolivariana, sono in molti a condividere il grido
espresso dall’ex presidente uruguayano Pepe Mujica a proposito
dell’elezione di Donald Trump: «Aiuto» (così ha risposto ai
giornalisti). Ma anche nei paesi del Centroamerica, dove il socialismo
del XXI secolo non è ancora di casa, c’è allarme tra le organizzazioni
in difesa dei migranti, dal Guatemala al Messico. Secondo la Direzione
generale della migrazione (Dgm), fino al 9 novembre erano stati
deportati per via aerea e terrestre 76.245 guatemaltechi. La Mesa de
Coordinacion Transfronteriza Migraciones y Genero (Mtmg) teme ora che il
numero delle espulsioni, già notevolmente aumentato sotto il governo
Obama, si moltiplichi.
Trump ha promesso l’espulsione massiccia
degli immigrati, e un’ulteriore crescita del muro con il Messico, le cui
spese verrebbero addebitate ai messicani. Il peruviano Pedro Pablo
Kuczynski, che tra il 17 e il 19 novembre ospiterà a Lima il Forum di
Cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec) ha detto: «Ci opporremo con
ogni mezzo, anche attraverso l’Onu». Il presidente neoliberista ha poi
espresso preoccupazione perché il commercio internazionale sta segnando
il passo. Per Kuczynski, uomo dell’Fmi e della Banca mondiale, ci vuole
«una forte unità fra i paesi della regione». Un’unità di capitali a
guida Usa, concordata con Obama attraverso il Tpp e l’Alleanza del
Pacifico, di cui il Perù fa parte insieme a Colombia, Messico e Cile.
Tutto
il centro-destra latinoamericano ha tifato per Clinton, con poche
eccezioni. Una di queste è costituita dal brasiliano Michel Temer, messo
in sella dopo il golpe parlamentare contro Dilma Rousseff. In Brasile,
gli interessi del miliardario xenofobo sono evidenti. Solo il suo hotel a
Rio de Janeiro, che ha ospitato i membri del Comitato olimpico, gli
apporta ogni anno 25 milioni di dollari. A Panama, dal 2011, c’è una
Trump Tower che ospita residenze di lusso, un hotel e un casino.
Un’altra è in costruzione a Buenos Aires dove l’imprenditore Mauricio
Macri, pur con qualche iniziale reticenza dovuta alle ottime relazioni
con l’amministrazione Obama e con i fondi avvoltoio, ha rispolverato la
vecchia amicizia con Trump, con cui ha fatto affari da giovane.
Oltre
a un pagamento iniziale, dagli imprenditori che utilizzano «il marchio
Trump», l’impresa del miliardario Usa intasca una commissione sulle
vendite dal 3 al 13%. E per questo, secondo il suo socio argentino,
Fernando Yaryura, invitato alla convention del Partito repubblicano,
«L’America latina non deve aver paura di Trump, che ha molti
investimenti personali nella regione. Gli Stati uniti continueranno a
essere un paese aperto ai latinoamericani». Tuttavia, hanno espresso
timore anche gli imprenditori delle Barbados.
E se pure le imprese
di Trump, negli anni ’80 abbiano violato il blocco economico imposto
dagli Usa a Cuba, le sue dichiarazioni bellicose contro «il
castro-madurismo» e il rafforzamento elettorale degli anticastristi di
Miami hanno messo in guardia l’isola e i suoi alleati. L’ex presidenta
argentina, Cristina Kirchner, ha invitato a non semplificare la risposta
neoliberista alla crisi di rappresentanza, e la richiesta di
«protezionismo del mercato interno, a fronte di una caduta del salario
da 20 a 7,25 dollari».
La preoccupazione più grande resta quella
del Venezuela, dove la National Endowment for Democracy (Ned) investe
ogni anno 30 milioni di dollari per finanziare progetti destabilizzanti
attraverso ong e partiti proni agli Usa. Trump ha promesso di sbloccare
la costruzione dell’oleodotto Keystone Xl, un milionario progetto che
cambierà la mappa petrolifera del Nordamerica e colpirà pesantemente la
presenza del Venezuela nel mercato della costa est degli Usa. Un
progetto approvato dal Congresso da due anni, ma sospeso da Obama su
richiesta degli ambientalisti che Trump vuole riattivare, forte della
maggioranza repubblicana nelle due Camere.
Trump ha tuonato anche
contro il processo di pace in Colombia, a cui Obama ha destinato 450
milioni di dollari per il post-accordo. Con la sua visione dei diritti
umani, si allontanano anche le speranze di libertà per i prigionieri
politici colombiani nelle galere Usa.