il manifesto 10.11.16
I lavoratori americani dimenticati dai democratici
Democratici
 e lavoro. Il partito democratico ha smesso da molto tempo di 
considerare i lavoratori la propria base elettorale, e ha contribuito a 
rendere più deboli e subalterne le loro organizzazioni. Barack Obama 
aveva promesso di eliminare alcune delle strettoie burocratiche che 
ostacolano la libera scelta di iscriversi al sindacato, ma una volta 
eletto se ne è dimenticato. In altre parole - e lo ha scritto molto bene
 in un libro recente Thomas Frank - se tanta parte della classe operaia è
 finita in braccio prima a Reagan e poi a Trump è anche perché quelli 
che erano i loro referenti storici ce l’hanno buttata
di Alessandro Portelli
Una
 delle cose più sconcertanti dell’interminabile campagna elettorale 
americana è il modo in cui i media e gran parte del campo democratico 
hanno proiettato un’immagine dei presunti elettori di Trump come 
totalmente alieni, altri da sé.
Lasciamo perdere il fatto che 
questo stereotipo – bianchi, proletari, maschi, ignoranti – non rende 
conto della base elettorale del candidato repubblicano, che è 
sfortunatamente molto più vasta e comprende settori non trascurabili di 
classe media (nel senso europeo) che si sente precaria e a rischio, 
precisamente come i siderurgici di Youngstown, e come loro reagisce.
Quello
 che sconcerta è il fatto che finché hanno fatto comodo queste figure – 
bianchi, anglosassoni, protestanti, lavoratori, residenti dell’America 
profonda… – sono stati per secoli identificati come la spina dorsale 
dell’America. Allontandoli da sé come l’altro assoluto, l’America 
liberale cancella in realtà una parte di sé, e quindi una sua pesante 
responsabilità in quello che queste persone sono diventate.
Come 
dice Bruce Springsteen, l’establishment liberal è diventato abbastanza 
ricco da non ricordarsi più come si chiamano. Non se lo ricordano anche 
perché hanno sempre fatto in modo di non conoscerlo.
Ricordo, 
guardando la televisione in casa di famiglie di minatori (bianchi e 
neri) in Kentucky, di essermi domandato: ma come mai facce come quelle 
di questa gente non si vedono mai in televisione?
Qualche tempo 
dopo, a Boston, la televisione accompagnava la notizia (breve e in fine 
di telegiornale) di un drammatico sciopero di minatori in Kentucky con 
una mappa – come faremmo noi per un’inondazione in Bangladesh – 
necessaria per far capire agli spettatori dove si trovano quei luoghi 
esotici e sconosciuti.
Questi hillbillies montanari sono stati di 
volta in volta l’immagine romantica (e inventata) del «puro sangue 
anglosassone», e quella (altrettanto inventata) del selvaggio stupratore
 di Un tranquillo week-end di paura. Poveri da aiutare e compatire 
perché incapaci di farlo da sé, o incontrollabili contrabbandieri di 
whisky clandestino (oggi, di marijuana).
Adesso le miniere 
chiudono, il carbone che è stato la loro vita, il loro orgoglio e la 
loro identità non è più l’energia che manda avanti l’America ma minaccia
 per l’ambiente (per questo si sono convinti che Obama sta facendo «la 
guerra contro il carbone» e nessuno – assolutamente nessuno – si è 
preoccupato di pensare che cosa faranno e di proporgli altre strade, 
altre possibilità.
I reportage del New York Times parlano di loro 
con lo stupore di chi si inoltra nel cuore sconosciuto di un continente 
alieno. Sanno benissimo che non sarà certo con Trump che magicamente si 
riapriranno i posti di lavoro in miniera, ma – molti, non tutti – lo 
voteranno, se non altro, per frustrazione.
Eppure, non sarebbe inevitabile.
Queste
 stesse realtà sono state la punta di diamante del sindacalismo 
americano (la loro canzone, Which Side Are You On?, da che parte stai?, 
la cantavano a Occupy Wall Street); è partita da qui, in West Virginia, 
nel più povero bianco e minerario di tutti gli stati, l’ondata che portò
 Kennedy alla presidenza.
Sono affetti dal razzismo, come tanta 
parte dell’America; eppure è stato il loro sindacato il primo a trattare
 bianchi e neri come uguali sul posto di lavoro.
Ma a partire 
almeno dagli anni ‘70 il sindacato li ha abbandonati, convinto che 
l’unico modo di salvare qualche posto di lavoro sia di allinearsi alle 
strategie aziendali che distruggono sia l’occupazione, sia l’ambiente.
Il
 partito democratico ha smesso da molto tempo di considerare i 
lavoratori la propria base elettorale, e ha contribuito a rendere più 
deboli e subalterne le loro organizzazioni. Barack Obama aveva promesso 
di eliminare alcune delle strettoie burocratiche che ostacolano la 
libera scelta di iscriversi al sindacato, ma una volta eletto se ne è 
dimenticato. In altre parole – e lo ha scritto molto bene in un libro 
recente Thomas Frank – se tanta parte della classe operaia è finita in 
braccio prima a Reagan e poi a Trump è anche perché quelli che erano i 
loro referenti storici ce l’hanno buttata.
I «Reagan Democrats» e i
 «Trump Republicans» sono in buona parte una creazione dei liberals. 
Eppure non sarebbero irrecuperabili: i sondaggi mostravano che almeno 
una parte degli elettori di Trump sarebbe stata disponibile a votare per
 Sanders, che se non altro dava l’impressione di parlare anche a loro – e
 gli diceva cose molto diverse da Trump.
Adesso è fatta, e spero 
che prevarrà il male minore (ma non per questo trascurabile). Ma poi non
 è che questa gente sparirà. Più i sistemi elettorali negano 
rappresentanza a marginali e scontenti, più la scontentezza prenderà 
altre forme, si manifesterà in altri modi.
C’è una memorabile 
battuta di Pogo, lo storico cartoon di Walt Kelly: «Certo che sono a 
favore delle libertà accademiche. La mia libertà è esclusivamente 
accademica!». Minatori del West Virginia e siderurgici di Youngstown 
continueranno a vivere nel paese dei liberi, ad avere il diritto di 
voto, di parola, di religione…Ma sempre più si rendono conto che sono 
diritti accademici, che quando li usano loro non hanno nessun impatto – 
per forza che si attaccano al diritto di possedere armi, pressoché 
l’unico diritto costituzionale che possono concretamente esercitare. Non
 credo che le minacce (non tanto) velate di insurrezioni e rivolte 
armate ventilate dai seguaci di Trump siano realistiche, anche se sono 
sicuro che ci sarà un incremento generalizzato della violenza.
Se 
non cominciamo subito a imparare di nuovo i nomi di queste persone 
dimenticate e stigmatizzate, a rivolgerci a loro come a cittadini con 
diritti che contano qualcosa, succederà qualcosa di più grave e più 
profondo: un allontanamento crescente di sempre più cittadini dalle 
istituzioni della democrazia; un accentuarsi del potere oligarchico di 
cui sono già adesso rappresentativi, sia pure in modi diversi, entrambi i
 candidati. Con esiti imprevedibili negli anni a venire.
 
