il manifesto 10.11.16
La vittoria di Trump campanello d’allarme per i governanti europei
Perché il «profeta» Michael Moore parla anche a noi
di Luciana Castellina
Illudersi
che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla
disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una
reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo.
Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a
rendersene conto.
Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva
previsto che «quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio» sarebbe
stato «ahimé – il nostro presidente». Ma il regista che meglio di ogni
altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i
volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il
Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la
Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti
dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di
rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel
precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale.
L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta
nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di
straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha
tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per
rimuovere ogni loro preoccupazione.
Eppure era chiaro che stava
salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque
sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di
assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il
77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato
l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di
disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità
milioni di giovani. L’establishment – democratico ma anche repubblicano –
è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo
finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del
capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né
vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perchè
la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema.
È
la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente
che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è
stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua
volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere).
Avevano
ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in
occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere
le elezioni l’«estremista» Bernie Sanders che la moderata Hillary
Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la
prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e
forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo
solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di
lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica,
smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al
centro.
Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i
nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come
in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano)
quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una
sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà
il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in
America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più
rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le
norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da
«carrettiere» e che in America chiamano «da spogliatoio». Le prossime
elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con
qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi
devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste
prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo
innanzitutto.
Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero
quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove
vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali
politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna
trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può
pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura
dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le
Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di
continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata.