il manifesto 10.11.16
I democratici travolti dall’odio contro le élite
Usa 2016. Intervista a Thomas Frank, autore di saggi sul voto della working class statunitense
di Guido Caldiron
Fin
 dall’inizio della campagna elettorale più violenta e divisiva che gli 
Stati Uniti abbiano conosciuto nella loro storia recente, Thomas Frank 
aveva messo in guardia quanti sembravano pronti a liquidare la minaccia 
rappresentata dal tycoon newyorkese, prima vincitore a sorpresa delle 
primarie repubblicane e quindi della stessa corsa alla Casa Bianca, solo
 evocando le posizioni razziste del personaggio e il suo atteggiamento 
aggressivo.
Per questo storico, editorialista dell’Harper’s 
Magazine, apprezzato analista della politica americana e autore di uno 
studio che ha fatto scuola sul modo in cui la destra ha sedotto i 
lavoratori bianchi nel corso degli ultimi trent’anni (What’s the Matter 
With Kansas?, Henry Holt and Co., 2004), a sostenere l’ascesa di Donald 
Trump sono state infatti prima di tutto le ansie e le preoccupazioni di 
«millions of ordinary americans», tanti «piccoli bianchi» appartenenti 
alla working class come al ceto medio declassato e impoverito e vittima 
della crisi.
Un’analisi da cui conseguiva tutta la forza e le 
pervicacia del fenomeno a cui Trump ha dato voce. E questo anche perché,
 come afferma lo stesso Frank nel suo recente Listen, Liberal: Or, What 
Ever Happened to the Party of the People? (Metropolitan Books, 2016), il
 Partito democratico e Hillary Clinton non sono sembrati in alcun modo 
interessati a rivolgersi a questa fetta della popolazione statunitense.
Oltre
 15 anni fa ha descritto come nel Kansas, dove lei è cresciuto, al pari 
di gran parte del paese, i repubblicani siano stati in grado di 
conquistare fin dalla fine degli anni Settanta una solida egemonia 
sull’elettorato popolare, spesso di tradizione democratica. Come è 
accaduto?
L’espediente utilizzato è ciò che negli Stati Uniti è 
andato sotto il nome di «guerre culturali», vale a dire l’evocare tutta 
una serie di temi, come la difesa della famiglia tradizionale, la lotta 
all’aborto, i «valori religiosi», un sottofondo di retorica razziale, 
con i quali contrastare i democratici accusati di essere i portatori di 
un’altro stile di vita, quello delle metropoli, del meticciato.
In
 realtà fin da allora mi sono reso conto che proprio i simpatizzanti dei
 movimenti ultraconservatori esprimevano per questa via anche un forte 
odio di classe: identificavano quelli che consideravano come gli 
«amorali» con le élite del paese. In altre parole sembravano esprimere 
una critica sociale travestita però da battaglia sui valori.
Il 
paradosso è che poi i Repubblicani hanno utilizzato questi milioni di 
voti dei lavoratori bianchi per condurre le loro politiche antisociali 
tutte volte a tagliare le tasse ai più ricchi e a ridurre il welfare…
In
 effetti la sfiducia e il rifiuto nei confronti dell’establishment 
presso le classi popolari bianche ha continuato a crescere visto che una
 volta abbandonato il Partito democratico per i Repubblicani fin dalla 
fine degli anni Settanta ci si è accorti che questi ultimi inseguivano 
solo il loro progetto di liberalizzazione dell’economia senza curarsi 
dei bisogni di questa parte dell’elettorato.
Poi però, con questa 
campagna elettorale le cose sono cambiate con la candidatura di Trump, 
che ha puntato tutto sulla possibilità di recuperare la rabbia e il 
sospetto cresciuti anche verso i vertici della destra.
Per 
conquistare i suoi supporter il miliardario ha spiegato, «avete ragione 
ad essere arrabbiati, il Partito repubblicano non ha fatto niente per 
voi, ma ora che ci sono io le cose cambieranno, bloccheremo i trattati 
sul commercio internazionale e riporteremo a casa i posti di lavoro». E 
lo stesso ha fatto per vincere le presidenziali.
Al netto delle 
proposte razziste di Trump o del fatto che molti dei suoi seguaci siano 
dei fanatici, questa volta i lavoratori bianchi hanno pensato di aver 
trovato il «loro» candidato?
Per certi versi credo proprio di si. 
Sulla scorta di un’inchiesta condotta dal sindacato Afl-Cio tra alcune 
migliaia di lavoratori bianchi della zona di Cleveland e Pittsburgh, 
spesso ex elettori democratici, emerge come le priorità per chi si 
diceva pronto a votare per Trump sono riassunti dalla promessa di 
«buoni» posti di lavoro. Centrali sono stati cioè i temi economici e, 
solo al terzo posto l’immigrazione. Allo stesso modo, molti dichiaravano
 di apprezzare il fatto che il candidato repubblicano aveva annunciato 
che avrebbe preso a pugni quei dirigenti industriali che hanno provocato
 o permesso la chiusura o il trasferimento all’estero di una fabbrica o 
di un’azienda.
Il vero problema, come si è visto con l’esito 
finale del voto, è che però tutto questo è avvenuto mentre, come spiega 
l’interrogativo che accompagna il suo ultimo libro, non si capisce bene 
che fine abbiano fatto fare i liberal al «partito del lavoro», cioè a 
quei democratici che hanno rappresentato per oltre un secolo il mondo 
della working class….
La risposta è molto semplice. Il Partito 
democratico ha deciso già da qualche decennio che non sarebbe più stato 
la forza politica che rappresentava i lavoratori, quanto piuttosto la 
classe media superiore, i laureati piuttosto che gli operai.
Hillary
 Clinton è una centrista interessata a difendere e a rappresentare ciò 
che viene definito come l’industria del sapere, la new economy e il 
libero scanbio. In una stagione segnata dalla crisi sociale come questa,
 i democratici si considerano come il partito dei vincitori, non quello 
dei perdenti. Alla convention democratica Hillary Clinton ha dichiarato 
«siamo anche il partito della classe operaia»; solo che è difficile 
crederle visto che alle sue spalle, seduti nei posti più cari della 
sala, c’erano i generosi donatori di Wall Street che l’hanno così 
caldamente sostenuta.
In questo senso l’onda di rabbia e di malcontento che ha portato Trump è finita per apparire insuperabile…
Si,
 ma anche il risultato di scelte molto precise fatta dalla nostra 
«sinistra». I democratici hanno voltato le spalle alle preoccupazioni 
della working class per diventare la tribuna dei professionisti 
illuminati.
Così, anche se Trump fosse stato alla fine sconfitto, 
con l’elezione di Hillary Clinton che cosa sarebbe potuto accadere? Non 
sarebbe semplicemente cambiato granché rispetto al recente passato. 
Certo, una presidenza democratica qualche cosa avrebbe fatto, ma niente 
di significativo per la working class.
Le diseguaglianze sociali 
avrebbero continuato a crescere, mentre la situazione economica avrebbe 
potuto migliorare leggermente, ma nell’insieme la situazione del paese 
non poteva evolvere in modo significativamente positivo per la working 
class. Così, un altro Trump, magari più accorto nei toni sarebbe 
apparso. Perciò, in qualche modo il disastro a cui assistiamo oggi si 
sarebbe prodotto di qui a quattro anni, con le prossime presidenziali. 
Ora, di fronte a questa situazione spaventosa c’è da chiedersi se 
qualcosa comincerà finalmente a cambiare tra i democratici come la 
candidatura di Bernie Sanders aveva fatto sperare alcuni mesi fa.
 
