giovedì 10 novembre 2016

Corriere 10.11.16
Perché l’America non è un paese per donne
di Gian Antonio Stella

«Non scoraggiatevi», ha detto Hillary alle ragazze e alle bambine americane deluse per la disfatta. Giusto. Mai mollare. La batosta di martedì però, per quanto dovuta anche a mille altri motivi e non solo alla misoginia storica di larghe masse di elettori, conferma una volta di più che l’America profonda, per parafrasare il titolo dei fratelli Coen, «non è un Paese per donne».
La slavina che ha sepolto la candidata democratica, peraltro rea agli occhi di tante elettrici d’essersi proposta come condottiera dell’altra metà del cielo tenendosi il cognome del marito, pare avere travolto non solo la sua carriera politica. Nel momento di massima pressione corale sul tema, le donne da ieri al Senato sono più o meno come l’altra volta. Totale: 22. Ci sono fra loro, è vero, figure di spicco come la prima senatrice ispanica (Catherine Cortez Masto), la prima rifugiata sudanese (Ilah Omar), la prima eroina militare mutilata in combattimento (Tammy Duckworth) e la seconda donna di colore (Kamala Harris) mai eletta.
Sempre ventidue sono, però. Su cento. Ed è probabile che questi numeri, se confermati dal voto alla Camera dei Rappresentanti, non permetterà all’America di Trump di schiodarsi dalle posizioni occupate nel ranking dell’Inter-Parliamentary Union sulle presenze femminili nei Parlamenti. Un mese fa era al 97° posto: novantasettesimo su 193 Paesi. Dopo l’Arabia, la Grecia e il Kenya. Staccatissima non solo dall’Italia, quarantaduesima, ma anche da Paesi come la Tunisia, la Macedonia, il Burundi... Per non dire del Ruanda, che svetta su tutti con il triplo abbondante di presenze «rosa» americane. Una classifica umiliante.
Il fatto è che se Trump è riuscito in una rimonta difficile sul Partito democratico, l’establishment, la grande finanza e tanti «poteri forti», Hillary era chiamata alla rimonta molto più difficoltosa su una storia secolare. Bastino due dati: su 50 stati solo sei hanno una donna come governatore. E su quei cinquanta chiamati al voto martedì, quelli che in due secoli di vita democratica non hanno mai avuto una donna ai vertici sono 23. Quasi la metà. E di questi, tredici (Arkansas, Florida, Georgia, Idaho, Indiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Pennsylvania, South Dakota, Tennessee, West Virginia e Wisconsin) sono stati il perno del trionfo di «The Donald», il maschio tra i maschi.
Dovremmo aggiungere, anzi, il Wyoming dove l’unica «governatrice» Nellie Tayloe Ross «ereditò» nel 1925 la carica dal defunto marito e il Texas dove Miriam A. Ferguson fu imposta negli stessi anni dal marito James E. Ferguson, il governatore rimosso tempo prima perché messo sotto accusa. Dopo di lei, una sola parentesi: Ann Richards. Fine. Come una parentesi fu Kay Orr nel Nebraska: quattro anni su 162 di storia.
Parevano vicende lontane, a molti, in campagna elettorale. Come immaginare che potessero pesare ancora? Le radici della diffidenza verso le capacità di governo delle donne, invece, si sono rivelate più profonde ancora di quanto temessero i più pessimisti. Del resto non solo la prima «governatrice» eletta senza esser moglie o vedova d’un governatore fu Ella T. Grasso nel Connecticut del 1974 (mezzo secolo dopo la concessione del voto alle donne!) ma l’ostilità misogina affonda in anni ancora più remoti.
Dicono tutto, come qualche lettore ricorderà, le date: il XV Emendamento che almeno sulla carta concede il voto agli afroamericani (anche se poi l’esercizio del diritto si rivelerà assai complicato) è del 1870, il XIX che lo riconosce alle donne del 1920: cinquant’anni dopo. Il primo nero, Pinckney B. Stewart Pinchback, è eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1874, la prima donna Jeannette Rankin nel 1916. Il primo senatore nero è Hiram Rhodes Revels nel 1870, la prima senatrice donna Rebecca Latimer Felton, nel 1922. E otto anni fa la stessa Hillary Clinton, più giovane, grintosa e meno ammaccata dalle polemiche, che si era candidata con la speranza di poter puntare già allora, prima donna, alla presidenza degli Stati Uniti, venne spazzata via alle primarie da Barack Obama. Affascinante. Ma afroamericano.
Solo una dannata catena di coincidenze storiche senza valore reale, come sbuffa qualcuno, rispetto ai «veri temi» della politica? Difficile da sostenere. È la società americana stessa, come accusava una battuta della rivista economica Fortune («se guardi gli organigrammi delle grandi aziende hi-tech ti sembra di trovarti in Arabia Saudita»), a ruotare intorno alla figura maschile. «Il 43% delle aziende della Silicon Valley quotate in Borsa non ha una sola donna nel consiglio d’amministrazione», scriveva mesi fa Federico Rampini. E parliamo della frontiera più ricca, tecnologica, aperta, avveniristica, cosmopolita d’America.
Immaginatevi quell’altra. Che mugugna sulla crisi davanti a una birra in un pub sul retro di un distributore di periferia...