Corriere La Lettura 6.11.16
Spari del poeta innamorato
La mattina del 10 luglio 1873 Verlaine compra un revolver a Bruxelles. Alle 14.30 fa fuoco contro Rimbaud
È l’apice di una tormentata, tragica, chiacchierata storia di passione e passioni
Il prossimo 30 novembre la sede parigina di Christie’s metterà all’incanto la pistola. La stima è intorno ai 60 mila euro
di Vanni Santoni
Se
la letteratura avesse mantenuto la propria preminenza nell’immaginario
popolare, esisterebbero forse nelle città turistiche dei «café» simili a
quelli in cui si espongono memorabilia del rock, ma con le bacheche
consacrate agli oggetti di scrittori e poeti. Il mondo è andato in
un’altra direzione, e il feticcio letterario trova rilievo solo quando
riguarda gli autori massimi. Raramente, tra dipinti e preziosi, le
grandi case d’aste ne vedono passare uno, quasi sempre destinato a
collezioni private: nel 2010 Christie’s batté la macchina da scrivere di
Kerouac (20.296 euro); quattro anni fa da Sotheby’s passarono un anello
di Jane Austen (169.322 euro) e il portasigarette di Agatha Christie
(6.247 euro); lo scorso settembre Julien’s ha battuto le ceneri di
Truman Capote (39.475 euro). Se, fra tutti, vi è un autore che viene
facile considerare «massimo», anzi rispetto al quale si è sempre in
ritardo, come se il suo grido «bisogna essere assolutamente moderni» si
fosse posizionato oltre il tempo, quello è Arthur Rimbaud: non stupisce
allora l’interesse intorno all’incanto, previsto il 30 novembre presso
la sede parigina di Christie’s, della pistola con cui Verlaine, al
culmine di una tragica storia d’amore, gli sparò contro.
Il
revolver che Paul Verlaine acquistò la mattina del 10 luglio 1873
all’armeria Montigny di Bruxelles, per 23 franchi. L’arma con cui
minacciò di uccidersi e poi fece fuoco due volte, cogliendo Rimbaud al
polso sinistro (il secondo colpo andò a vuoto, prendendo il caminetto
della camera dell’Hôtel à la Ville de Courtrai in cui alloggiavano
durante l’ennesimo, tormentato incontro). L’arma alla quale, di nuovo,
mise mano nel pomeriggio, portando Rimbaud a denunciarlo. Denuncia
ritirata qualche giorno più tardi, ma sufficiente a portare il giudice a
farsi qualche domanda circa la reale natura di un’amicizia così
burrascosa, e costringere Verlaine a umilianti esami pseudoscientifici
atti a scoprire se il suo corpo recasse i segni del vizio. La
commissione stabilì di sì, e il poeta fu sbattuto in carcere per 2 anni e
condannato a pagare un’ammenda di 200 franchi. La pistola fu
sequestrata e se ne persero le tracce, finché non fu scoperta presso un
privato ed esposta per la prima volta alla mostra Verlaine, cella 252 a
Mons, in Belgio, nel 2015.
La pistola di Verlaine, dunque. Eppure,
se desta immediato e globale interesse (e un’attesa minima di vendita
intorno ai 60 mila euro) è certo per via di Rimbaud.
Rimbaud è
sempre feticcio (chi non possiede una sua raccolta comprata negli anni
del liceo per l’idea che egli incarnava, prima che per le poesie?);
Rimbaud è sempre mito. «Si dice che Vitalie Rimbaud, nata Cuif, partorì
Arthur Rimbaud» scrive Pierre Michon nella biografia più fortunata del
poeta, Rimbaud il figlio , e con quel «si dice» lo posiziona subito nel
campo della leggenda. Come tale, Rimbaud sfugge alle categorie, a ogni
facile fissaggio, ed è per questo che ogni ritrovamento, ogni foto
sbiadita che esce dal baule di un antiquario, finanche la scoperta di un
singolo verso (nel 2009 l’ultimo: « L’eternel craquement des sabots
dans les cours », riportato sul «Gaulois» del 23 febbraio 1885) è un
evento. I memorabilia rimbaudiani hanno infatti un compito ulteriore:
tentare di fermare, almeno nella storia, lo sfuggente. Il simbolo stesso
dell’irriducibilità. Rimbaud non si fissa, non si categorizza, non si
possiede. Non lo si può sottomettere — i parnassiani e gli zutisti,
primi circoli poetici con cui entrò in contatto a Parigi, e lo stesso
Verlaine, comunque «principe dei poeti», erano destinati a venire
bruciati come dal passaggio di una cometa — ma neanche si riesce a
bloccarlo posizionandolo all’apice di qualcosa. Definito, negli anni,
padre del decadentismo, del simbolismo, del surrealismo («l’essere più
straordinario che abbia solcato la terra» per Cocteau), del modernismo
(per l’intuizione dell’intertestualità nel Battello ebbro ), della
psichedelia (da Ginsberg, per la Lettera del veggente : «Bisogna essere
veggente , farsi veggente , attraverso una lunga, immensa e ragionata
sregolatezza di tutti i sensi »), antesignano del punk e del femminismo
(da Patti Smith, per il suo rifiuto di ogni convenzione, inclusa la
volontà di avere un futuro, e per le sue affermazioni circa la necessità
di una liberazione di genere), inventore dell’identità gay moderna per
il biografo Graham Robb (e sotto sotto anche per Edmund White, autore
del godibile La doppia vita di Rimbaud ); precursore addirittura del
postmodernismo per la fuga improvvisa e mai rinnegata dalla letteratura,
intesa essa stessa come atto artistico, come scrive, tra gli altri,
Jamie James nel Rimbaud a Giava , di recente pubblicazione per Melville
Edizioni, e finanche della singolarità tecnologica («La scienza, la
nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! Perché non dovrebbe
svoltare? È questa la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito...»).
Ovunque
lo si collochi, Rimbaud è già un passo avanti: il caso più stupefacente
e insolubile della storia della poesia, come ebbe a scrivere
Palazzeschi, fa parte a sé, senza le parentele che tutti i poeti hanno
fra di loro, e sfugge quindi a ogni definizione che non sia iperbolica.
Così è un attimo esagerare: ecco la critica Edith Sitwell a definirlo
iniziatore della prosa moderna, ecco René Char che parla del primo poeta
di una civiltà non ancora nata, e ancora Fénéon che lo mette «al di
fuori e al di sopra di ogni letteratura», Mallarmé che parla di un «dio
della mitologia», Camus di «oracolo sfolgorante»... Quasi senza
accorgercene ci ritroviamo con Jim Morrison a definirlo «salvatore della
razza umana», e senza sentirci esagerati.
Questo è Rimbaud. Se ha
qualche parentela, sono quelle da lui stesso indicate: diciassettenne,
riconosce un solo re, Baudelaire, e un solo vero poeta subito sotto,
quel Paul Verlaine che lo avrebbe invitato a Parigi, certo del suo
genio, che se ne sarebbe innamorato, che da lui avrebbe tratto lo
strappo necessario anche alla propria grandezza, che invano avrebbe
tentato di trattenere a sé. «Venite, cara grande anima, vi chiamiamo, vi
aspettiamo», scrive Verlaine nell’agosto del 1871, in risposta alle
lettere e alle poesie del diciassettenne Arthur. «T’insegno io a
volertene andare» urla lo stesso Verlaine due anni più tardi, mentre fa
fuoco. In mezzo si è consumata la loro storia d’amore, il cui scandalo
avrebbe distrutto il matrimonio del primo e fatto odiare il secondo da
quegli stessi circoli parigini che si erano inchinati al suo arrivo.
Braccati dalle maldicenze (e dalla moglie di Verlaine, Mathilde, che,
quando inizia la relazione con Rimbaud, gli ha appena dato un figlio),
le loro fughe si sono fatte sempre più goffe e rocambolesche, e l’abuso
di assenzio non aiuta. L’ultima li ha portati prima a Londra, poi a
Bruxelles.
Sono le 14.30 del 10 luglio 1873 quando Verlaine, dopo
l’ennesima lite, fa fuoco. Così si arriva alla pistola. Al revolver
Lefaucheux 7 millimetri pet de lapin (ovvero «cucciolo di coniglio» —
tutto, in Rimbaud, riverbera: il francesista penserà al coniglio dei
versi di Festa galante , scritti da Verlaine e ricomposti in altra forma
da Rimbaud; il biografo vedrà un lampo del destino di mercante d’armi
del Rimbaud adulto; il visionario coglierà un segno nel fatto che si
tratta dello stesso modello con cui 17 anni dopo si sarebbe ucciso
Vincent van Gogh).
Due colpi esplosi, un terzo colpo minacciato.
Verlaine usa l’arma per trattenere Rimbaud, per fissarlo. Il risultato è
opposto. Rimbaud si separa dall’amante e si chiude in un granaio della
natia Charleville per scrivere Una stagione all’inferno . Ha solo
diciannove anni ma è il suo testamento: dopo di esso partirà. Lo
troviamo scaricatore a Livorno, soldato e disertore a Giava, poi a
Vienna, Colonia, Brema, al seguito di un circo a Amburgo, e ancora a
Stoccolma e Copenaghen, a Cipro, nello Yemen e infine in Etiopia, dove
si ferma ad Harar facendosi mercante. Ogni momento della sua vita è
buono per irradiare storie e le moltissime biografie lo testimoniano, ma
il momento dello sparo è quello decisivo — non ne manca infatti una,
ottimamente documentata, che parte proprio da lì: Una sconosciuta
moralità di Giuseppe Marcenaro, uscita per Bompiani nel 2013 —, è la
lacerazione da cui nasce l’abbandono, prima di Verlaine e poi della
letteratura: «La mia giornata è compiuta — scrive Rimbaud in Una
stagione all’inferno —: lascio l’Europa. L’aria marina mi brucerà i
polmoni; i climi remoti mi abbruniranno». Così il poeta, artefice ultimo
del proprio destino, si consegna al mito, all’impossibilità di
qualunque irreggimentazione, e dona a ogni oggetto che lo riguardi, che
sia testo autografo, fotografia o pistola d’amante, un’aura da cui si
irradia la sua storia, ogni volta in modo diverso e atto ai tempi — e
così sarà per chi si aggiudicherà la Lefaucheux 7mm, ma Rimbaud, a quel
punto, sarà già altrove.