Corriere La Lettura 6.11.16
Olivetti , il lavoro come riscatto morale
L’intervista
Giuseppe Lupo ricostruisce la stagione della fabbrica-comunità di Ivrea
concepita da Adriano. «Aveva ragione Sinisgalli: la sua morte fu una
sciagura maggiore di quella di Kennedy»
di Paolo Di Stefano
«L’idea
di fabbrica-comunità concepita da Adriano Olivetti rappresenta qualcosa
di unico nel panorama italiano, probabilmente un’anomalia tanto
affascinante quanto vistosa. Il suo obiettivo era finalizzato alla
promozione dell’uomo più che a realizzare profitti». Giuseppe Lupo,
scrittore oltre che critico letterario, ha lavorato a lungo sulla
letteratura industriale italiana e con il suo nuovo libro ricostruisce
quel «laboratorio di idee» olivettiano che fu un confronto tra
scrittura, arte, design, architettura, filosofia, sociologia da cui nel
1946 nacque la rivista «Comunità». Dalla prima parte del libro, La
letteratura al tempo di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità) , emerge
la figura di un imprenditore carismatico e illuminato che legge
Maritain, Mounier, de Rougemont, gli «apostoli della Comunità»: «Adriano
Olivetti — dice Lupo — si è molto ispirato ai filosofi del personalismo
francese. Con una particolarità: ha reso concreto il comunitarismo
cristiano, che Maritain e Mounier ritenevano una costruzione teorica».
Oggi cosa rimane di quell’idea? « In tempi di crisi come questi (crisi
di idee, soprattutto) molti invocano il nome di Olivetti, a volte anche
con un po’ di sufficienza. Il vero problema è stabilire quanti
(imprenditori, politici) siano davvero disposti a concepire il lavoro
nelle forme di testimonianza morale, quale veicolo di riscatto non solo
economico».
È impressionante la capacità di coinvolgere nel
«sogno» di Ivrea il meglio degli intellettuali del tempo (cattolici,
socialisti e liberali) all’indomani della caduta del fascismo.
«Come
tutti, anche la Olivetti ha attraversato il fascismo, restando indenne,
probabilmente grazie alla sua posizione decentrata nella geografia
politica. Gli intellettuali coinvolti nel progetto (Sinisgalli, Volponi,
Fortini, Bigiaretti, Giudici, Buzzi, Pampaloni, tranne forse Ottieri)
rappresentano una garanzia di discontinuità, sono cioè figure che poco o
nulla hanno avuto a che fare con l’esperienza del ventennio (Soavi è un
caso a parte). Molti (vedi Fortini) sono stati partigiani».
Ansia
di progettualità e pianificazione, ma anche diffidenza verso il moderno
e nostalgia per la natura. Che cosa si intende per contromodernità?
«Se
per modernità negli anni Quaranta- Cinquanta si intendeva percorrere il
mito della città fordista e dell’urbanesimo selvaggio (con le sue
deviazioni morali e psicologiche), Olivetti propose un’idea di progresso
che andasse decisamente contromano: la comunità a misura umana,
delocalizzata ma efficiente nei servizi. Progresso e natura insomma.
Qualcosa di antesignano rispetto ai modelli dei distretti».
Qual è l’autore che ha rappresentato meglio di altri l’ideale olivettiano?
«Tenendo
presente che non tutti gli intellettuali cooptati da Olivetti
condivisero il suo verbo, il più vicino credo sia stato Paolo Volponi,
che non solo scrive uno tra i romanzi più belli ispirati da questa
esperienza ( Memoriale , nel 1962), ma dedica a Olivetti Le mosche del
capitale , definendolo “maestro dell’industria mondiale”. Volponi ha una
visione apocalittica dello sviluppo industriale, politicamente scettica
verso i modi in cui il capitalismo si andava affermando in Italia,
eppure ci dà uno dei documenti più lirici (e nostalgici) del progresso».
Scrivendo
di letteratura e lavoro, Calvino parla, con le dovute eccezioni
(Volponi), di «kafkismo sociologico» in chiave alquanto sprezzante.
«Per
Calvino molta letteratura industriale è grigia, monotona e troppo
ideologizzata. Non a caso invocava il paradigma di Kafka quale esempio
dell’assurdo e dell’allucinazione con cui venivano raccontate le
fabbriche in quegli anni. Una parte di vero nel suo giudizio c’è.
Sarebbe stato corretto non fermarsi soltanto ai conflitti di classe, ma
raccontare le fabbriche come “una via di libertà” dalla civiltà della
terra».
A un certo punto si segnala una contraddizione, o meglio
un pericolo: che il progetto umanistico di Olivetti potesse covare in sé
qualcosa di facilmente manipolabile.
«Ogni pianificazione
architettonica, che presuppone un sistema di vita organizzato, anche se
contiene presupposti utopici e dunque potenzialmente positivi, può
nascondere il vizio di una civiltà asfittica, felice, appagante, ma
priva di libertà. Tra l’altro, è quasi inevitabile lo sconfinamento
nella distopia in presenza del progresso tecnologico, lo dice
chiaramente Lewis Mumford. E lo sospetta anche uno dei personaggi del
romanzo dell’autore Giancarlo Buzzi, L’amore mio italiano (1963)».
Nella
presenza intellettuale a Ivrea non mancano aspetti di ambiguità:
Fortini esprime imbarazzo per il suo essere organico alla fabbrica e
insieme critico sulla modernità industriale.
«Ognuno dei letterati
entrati in contatto con questa realtà ha dato una sua rappresentazione,
a volte tragica (Volponi), altre volte grottesca (Ottieri), in altri
casi ancora inquieta (vedi Buzzi che scrive una storia di amori
clandestini tutta giocata sul tema di una irraggiungibile felicità che
si traveste di beni materiali): Buzzi meriterebbe di essere riscoperto,
anche per essere stato uno degli uomini più vicini al Movimento di
Comunità. Non dimentichiamo che è stato uno dei primi in Italia a
scrivere un saggio sulla pubblicità: La tigre domestica , nel 1964,
recentemente ripresentato da Hacca. Quanto a Fortini, l’esperienza in
Olivetti ha creato in lui una crisi di coscienza: poeta convintamente
marxista e nello stesso tempo inventore di slogan pubblicitari».
Uscito
dai tradizionali luoghi curiali ed entrato in fabbrica, l’intellettuale
italiano non ha finito per accrescere il proprio senso di frustrazione?
«La
fabbrica è stata probabilmente l’ultimo dei contesti in cui gli
intellettuali si sono illusi di avere un ruolo determinante. Scacciati
dalle corti rinascimentali, estromessi dai partiti, messi in crisi dalla
civiltà di massa, hanno pensato di ricavarsi uno spazio di azione che
fosse anche un modo per influenzare la società. Spesso ne hanno tratto
la sensazione di essere servi dei padroni (espressione di Fortini) o di
“suonare il piffero” agli imprenditori, come racconta Libero Bigiaretti
ne Il congresso (1963)».
Che rapporti si stabilirono tra la rivista e il Mezzogiorno?
«“Comunità”
nasce nel 1946 come una specie di diario di bordo attraverso cui
studiare la realtà e stimolare dibattiti. È stata tra le più innovative
del Novecento e ha dimostrato di sapersi confrontare con i problemi del
proprio tempo. La sfida che la rivista lancia al Mezzogiorno è
ambiziosa: quale futuro dare al Sud? E come metabolizzare il passaggio
dalla civiltà contadina alla civiltà industriale? “Comunità” guarda sì
alla geografia di Matera (che è la capitale delle città contadine, così
la chiama Riccardo Musatti), ma pensa anche a Pozzuoli, la sede del
nuovo stabilimento che si inaugura nel 1955, dove Ottieri ambienta
Donnarumma all’assalto . Quasi a dire: la via del Sud passa per la
riforma agraria ma non dimentica i miraggi delle ciminiere».
Resta il fatto che con la morte di Olivetti si è spenta l’energia della sua visione progettuale.
«La
morte di Olivetti, scrive Sinisgalli, è stata una sciagura più della
morte di Kennedy. E in questa frase si riassume, penso, il grande
travaglio suscitato in chi ha creduto nel Vangelo di quest’uomo. Tutto
ciò che è avvenuto dopo la sua morte prematura ha contato in termini
negativi non solo per l’azienda, ma anche per il Paese. Mi riferisco,
per esempio, alla insensata decisione di bloccare lo sviluppo
informatico che nei primi anni Sessanta poneva la Olivetti in una
posizione leader nel mondo. Sarò un ingenuo, ma continuo a credere che i
progetti hanno le gambe lunghe della storia, che non muoiono
facilmente, così come non spariscono i libri, come Città dell’uomo , il
testamento morale di Olivetti, che continua a essere ristampato dalle
rinate Edizioni di Comunità. Finite le fabbriche, spente le sirene,
restano le idee».