Corriere 6.11.16
Il dottor Kafka non visita più (ma qualche volta purtroppo sì)
di Claudio Magris
In
quella geniale e abnorme enciclopedia totale di tutte le aggregazioni
collettive e di tutte le forme del dominio che è Massa e potere manca —
come a suo tempo ebbi occasione di dire allo stesso Elias Canetti, non
senza suscitare l’irritazione della sua accanita volontà di controllare e
dettare ogni interpretazione della propria opera — un capitolo: quello
sul potere del medico.
Fra tutte le figure che si ha occasione di
frequentare nella propria esistenza, la più autorevole, quella che
ispira maggiormente autorità, suscitando un binomio di timore/speranza
che è uno dei segreti e dei meccanismi del potere, è il medico. Non solo
perché il medico è un’autorità i cui pronunciamenti possono emettere
sentenza di vita e di morte, ma anche perché il suo sapere, cui si
ricorre quasi sempre con ansia o con maniacale attesa, condiziona la
nostra esistenza, le impone comportamenti o rinunce, talora sostanziali
mutamenti di vita, di abitudini e comportamenti.
Il medico è
depositario di un sapere che penetra nel nostro corpo, smaschera segreti
dei nostri organi e dei nostri impulsi. Un sapere-potere che ha
un’autorità quasi militare su di noi, che condiziona i nostri movimenti,
che può decidere d’imperio — o per lo meno inocularci un imperativo
psicologico di obbedire alle sue decisioni — di abbandonare la nostra
casa e di entrare in un’istituzione o di non lasciarla.
Quel
potere in qualche modo arcano è reso più intenso dal possesso di un
linguaggio specifico che adopera parole diverse da quelle comuni e
condivise, che definisce in altro modo un nostro mal di pancia o di
testa, dominandoci pure nel nostro interno, con una conoscenza di ciò
che siamo maggiore di quella che abbiamo di noi stessi ed espressa in
termini che, nella loro settoriale precisione scientifica a noi non
sempre comprensibile, mettono talora in soggezione come formule
esoteriche.
Tutto ciò affratella per un breve momento i pazienti
che attendono passivi il loro turno nell’ambulatorio come studenti in
attesa della chiamata all’esame, in una provvisoria comunità in cui
ciascuno alimenta la trepida passività dell’altro. La soggezione è resa
più intensa dall’alto numero di chi attende il verdetto e si sente,
quanto più alto è questo numero, spersonalizzato e ignoto,
insignificante atomo di una massa o, come scriveva Robert Walser,
«un’entità sperduta e dimenticata nell’immensità della vita».
Forse
mai come ci si presenta in un ospedale o in un ambulatorio si vorrebbe
essere qualcuno, ben individuabile nella folla e sottratto
all’indistinto di quest’ultima. Non ci interessa tanto conoscere il
medico, quanto che egli ci conosca e riconosca; si vorrebbe essere per
lui qualcuno, unico e inconfondibile, emergente dall’anonimato.
L’accesso crescente ai servizi sanitari, una delle più grandi e civili
conquiste della nostra epoca, rende ancor più intenso, causa i grandi
numeri in cui ciascuno di noi si confonde, questo processo psicologico.
Se
le sale d’attesa e i pronto soccorso sono sempre più affollati — anche
per una crescente ipocondria a spese del denaro pubblico, che talora
assume le dimensioni di un vero spreco, colpevole nei confronti dello
Stato e del contribuente — la figura del medico quale autorità
misteriosa che istituisce distanza fra sé e i pazienti, ovvero coloro
cui dev’essere vicino, fa parte di un passato non del tutto estinto ma
in via di estinzione. Il primario quale Ras che circola inavvicinabile
fra i letti è sempre più impensabile. Fra i grandi progressi del nostro
tempo c’è pure la diversa figura che ha assunto il medico, il diverso
rapporto con i pazienti, l’umanità concreta che sempre più caratterizza
la personalità del medico stesso.
In questi anni ho avuto
occasione di frequentare, per me e soprattutto per persone a me care,
medici delle più svariate specialità ed è stata una delle forti e
liberatrici esperienze della mia esistenza. Nelle più varie discipline
che si confrontano con i mali che assalgono l’uomo — dall’oncologia
all’oculistica, dalla dermatologia alla pediatria, dalla cardiologia
alla neurologia, alla chirurgia — ho avuto modo di toccare con mano una
radicale trasformazione del rapporto fra medico e paziente, che
significa un vero passo in avanti dell’umanità. Ho visto clinici di
diverse specialità — e ne ho anche scritto, citando nomi e cognomi —
capaci di dare serenità dicendo la verità, una verità spesso tutt’altro
che allegra. Ho accompagnato di recente una persona a me carissima dalla
sua oncologa, tanto inesorabilmente precisa nella sua descrizione dello
stato delle cose quanto incredibilmente capace di comunicare queste
nozioni neutralizzando il loro potenziale d’ansia, sicché siamo usciti
dal colloquio non ossessionati dalla malattia, bensì pervasi da un
profondo senso della vita e della sua creatività, che comprende il
meglio e il peggio, entrambi guardati chiaramente in faccia. Certo,
quando il numero dei pazienti che giustamente fanno ansiose e ripetute
domande si fa alto, la necessaria fretta e lo stress a essa legato
possono rendere più difficile questo momento di creatività non solo
professionale ma umana.
Non so se questo anonimato del numero
possa essere origine dell’esperienza radicalmente opposta e negativa da
cui è nato questo affilato, commosso, incalzante testo di Roberto Finzi.
Come
risulta — con forte e toccante evidenza da queste pagine appassionate,
asciutte, struggenti e inesorabilmente precise — Roberto Finzi ha
vissuto un’esperienza acremente dolorosa e tartufescamente confusa nei
rapporti col potere kafkiano delle istituzioni sanitarie, in questo caso
il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Questo breve testo,
vibrante di affetto e di dolore tanto più intensi quanto più contenuti
nel rigore dell’inesorabile argomentare, nasce da una profonda e pudica
sofferenza e perdita affettiva. Non certo da un’esigenza di vendetta,
bensì di giustizia nel senso più alto, giustizia che non è mai di uno
solo ma di tutti, anche se la battaglia per essa nasce da un caso e da
una passione individuali.
Il dramma da cui scaturiscono queste
pacate e implacabili pagine è la morte della compagna della vita di
Roberto Finzi, sua moglie Mirella Bartolotti, deceduta poco dopo aver
trascorso oltre quaranta giorni di degenza in quel Policlinico. Come
ricorda Finzi stesso, Mirella è una forte, appartata e rigorosa figura
di donna che è stata tra le prime a occuparsi, nella giunta municipale
bolognese di molti anni fa, dei problemi delle donne; «una “cittadina”»,
come scrive un collega che ha insegnato decenni con lei, «una
“repubblicana” amante della Costituzione che, dopo l’impegno politico,
mai abbandonato ma lasciato quale ruolo nel consiglio comunale dopo otto
anni di attività, aveva scelto la scuola per formare cittadini oltre
che persone colte». (...)
Mirella Bartolotti è morta subito dopo essere stata dimessa da quella premiata clinica.
Roberto
Finzi non incolpa l’istituzione della sua morte, ma chiede —
pacatamente, minuziosamente, implacabilmente — ragione di tante cose che
non sembrano quadrare, la spiegazione delle quali — trascurate forme di
decubito, vaga diagnosi di demenza, destinazione al letto di
contenzione — gli appaiono macchinose e oscure. Finzi chiede spiegazioni
lucide e complete, e reagisce alla vaghezza, alla genericità a suo
avviso sviante di molte risposte.