Corriere La Lettura 6.11.16
Risarcimenti
Se ne discuteva già nel 1865, l’Onu ora lo ripete
Ta-Nehisi Coates dice che negli Usa è il momento di sdebitarsi con i discendenti degli schiavi
1860.
Quattrocentomila schiavisti sono responsabili di circa 4 milioni di
neri in catene: la ricchezza prodotta vale 3,5 miliardi di dollari
2016.
Gli afroamericani sono il 40,2 per cento della popolazione carceraria,
ma soltanto il 14 per cento della popolazione statunitense
di Fabio Deotto
TA-NEHISI COATES
Un
conto ancora aperto. Quanto valgono duecentocinquant’anni di schiavitù?
Traduzione di Daria Restani CODICE EDIZIONI Pagine 110, e 9,90
Lo
scorso 25 luglio, durante la convention del Partito democratico a
Philadelphia, Michelle Obama ha pronunciato una frase che non ha mancato
di sollevare polemiche: «Ogni giorno mi sveglio in una casa che è stata
costruita da schiavi». Tra le fila dei conservatori c’è chi ha accusato
la first lady di mistificare la realtà, altri di voler picchettare la
barriera razziale che sta dividendo il Paese; in realtà, ad essere
pignoli, non solo la Casa Bianca è stata effettivamente costruita
sfruttando la manodopera di persone private della loro libertà, ma lo
stesso può dirsi dell’intero Paese di cui oggi quell’edificio è simbolo.
È
il punto focale del saggio Un conto ancora aperto , in uscita l’8
novembre per Codice Edizioni (traduzione di Daria Restani), in cui
l’autore americano Ta-Nehisi Coates spiega perché sia necessario
discutere di una forma di risarcimento per i discendenti degli schiavi
afroamericani.
Per capire quanto le prospere radici degli Stati
Uniti affondino in profondità nel loro passato schiavista sono
sufficienti alcuni dati. In una lezione tenuta all’Università di Yale
nel 2008, lo storico David W. Blight ricordava come nel 1860, pochi mesi
prima della guerra di Secessione, nel Paese si contassero almeno 400
mila schiavisti, padroni di quasi 4 milioni di persone in catene: «Gli
schiavi americani valevano approssimativamente 3,5 miliardi di dollari
(pari circa a 75 miliardi attuali), più del valore complessivo dei
settori manifatturiero, infrastrutturale e produttivo degli Stati Uniti
all’epoca».
Nel 1865, con l’introduzione del XIII emendamento alla
Costituzione americana, la schiavitù venne di diritto abolita, ma la
questione era tutt’altro che chiusa. Dopotutto, la manodopera nera
gratuita era la spina dorsale dell’economia degli Stati del Sud, perciò
vennero adottati provvedimenti per far sì che la situazione cambiasse il
meno possibile. Il XIII emendamento stabiliva che nessun cittadino
americano potesse essere privato della libertà e costretto al lavoro
involontario, con l’eccezione dei colpevoli di un crimine; questa
scappatoia, unita a un’attenta campagna di demonizzazione, portò a un
netto aumento degli afroamericani incarcerati e costretti al lavoro
penale; una curva che non ha mai smesso di impennarsi, tanto che oggi i
detenuti nelle carceri americane raggiungono la cifra record di 2,3
milioni. Tra questi, la quota di afroamericani ammonta al 40,2 per
cento, nonostante rappresentino solo il 14 per cento della popolazione
statunitense.
Ma come illustra bene Coates in Un conto ancora
aperto , gli strascichi dello schiavismo hanno colpito duramente anche
chi è rimasto lontano dalle sbarre. Prima le leggi di Jim Crow (che
negli Stati del Sud sancivano una vera e propria segregazione razziale) e
poi la pratica del redlining (ossia la tendenza a non concedere mutui e
altri servizi a chi vive in quartieri a maggioranza nera) hanno di
fatto ostacolato l’accumulo di ricchezza all’interno della comunità
afroamericana. Oggi la disparità di reddito negli Usa è tale che,
secondo un recente studio dell’Institute for Policy Studies, una
famiglia afroamericana impiegherebbe 228 anni per accumulare la
ricchezza media attuale di una famiglia bianca.
Il 18 agosto le
Nazioni Unite si sono espresse ufficialmente a favore dell’opportunità
di risarcire i discendenti degli schiavi americani, suggerendo 36
interventi specifici, tra cui la desegregazione in ambito scolastico, la
riforma della giustizia criminale e, soprattutto, l’istituzione di una
commissione per la discussione di proposte di risarcimento per gli
afroamericani.
La questione dei risarcimenti è stata posta per la
prima volta nel 1865, quando il generale William T. Sherman propose che a
ogni famiglia liberata venissero consegnati 40 acri (circa 16 ettari)
di terra coltivabile e un mulo per lavorarla (misura poi annullata in
seguito alla morte di Lincoln). Da allora il problema non ha mai trovato
soluzione. Nel 2001, alla prima National Reparation Convention, Howshua
Amariel ha proposto di risarcire ogni discendente con 50 anni di
educazione, sanità e assistenza legale gratuite ed esentasse. In
un’indagine pubblicata nel 2000, la rivista «Harper’s» ha calcolato che,
tra il 1619 e il 1865, gli schiavisti abbiano goduto di 222.500.000 ore
di lavoro forzato per un totale di 97 mila miliardi di dollari che,
idealmente, sarebbero da dividere tra gli Stati Uniti e i Paesi europei
che a loro volta praticavano la tratta e la schiavitù. Naturalmente
queste proposte hanno generato e generano tuttora accese controversie:
per alcuni c’è il rischio di dividere ulteriormente il Paese; per altri
ancora un eventuale risarcimento non andrebbe a beneficio di chi ha
subito davvero la schiavitù e non ne colpirebbe i veri responsabili; lo
stesso Barack Obama ha più volte respinto questa idea, sostenendo che
potrebbe essere utilizzata come «una scusa per pensare che il debito sia
definitivamente saldato e così evitare tutto il lavoro necessario per
eliminare ogni forma di discriminazione».
C’è poi chi ritiene che
le riparazioni creerebbero un precedente, inducendo altre comunità
oppresse a battere cassa, a partire dai nativi americani. Fare un
parallelo di questo genere, tuttavia, rischia di essere fuorviante, dato
che in molti casi i nativi americani rigettano l’idea stessa di
compensazione monetaria: «La nostra terra, più che una risorsa, è un
parente con cui avevamo un rapporto irreplicabile» ha scritto sul
«Washington Post» Daniel R. Wildcat, professore dell’Haskell Indian
Nations University. «Le tribù della grande nazione Sioux, ad esempio,
hanno fermamente rifiutato un accordo monetario per la presa delle Black
Hills, luogo che considerano sacro». Il messaggio dei Sioux è chiaro, e
dà la misura della differente visione del mondo che intercorre tra chi
in origine abitava quelle terre e chi le ha occupate: non vogliamo
denaro perché, semplicemente, la terra non può essere messa in vendita .
Nel
caso della questione afroamericana il problema non riguarda la
sottrazione di territori, quanto l’appropriazione di milioni di corpi e
il loro sfruttamento a livello economico che, negli ultimi 400 anni, ha
consentito la costruzione di una ricchezza da cui i discendenti di quel
popolo sono tuttora tagliati fuori. Non è un caso se le associazioni
promotrici dei risarcimenti sono le prime ad aggirare la questione
monetaria: «L’unica cosa che chiediamo è di portare avanti uno studio —
dice Nkechi Taifa della N’Cobra (la National Coalition of Blacks for
Reparations in America) — Finanziamo studi su qualunque cosa. Non
potremmo almeno prendere in esame la questione?».
Più che a
livellare le disparità, secondo Coates, una discussione sui risarcimenti
servirebbe a «vedere l’America per ciò che è: l’opera di esseri umani
fallibili». Riconoscere di vivere in un Paese costruito da schiavi non
significa dunque creare ulteriore divisione, significa elaborare la
vergogna di secoli di schiavismo, significa trasformare il senso di
colpa in un monito duraturo, significa gettare finalmente le basi per
costruire una nazione libera dal concetto di razza.