Corriere La Lettura 20.11.16
La poca coscienza degli operai cinesi
Compirà
10 anni nel 2017 la Legge sui contratti di lavoro con la quale la Cina
di Hu Jintao cercò di mettere ordine al ribollente panorama sociale del
boom economico, allestendo un apparato giuridico che nel frattempo è
stato adattato a realtà in evoluzione. Su quest’universo ha indagato a
lungo Ivan Franceschini ( Lavoro e diritti in Cina. Politiche sul lavoro
e attivismo operaio nella fabbrica del mondo , prefazione di Luigi
Tomba, il Mulino, pagine 188, e 16) che rileva i paradossi del modello
cinese, dove il governo «avanza un discorso di diritti e legalità sul
lavoro, mentre allo stesso tempo chiude un occhio di fronte alle
violazioni dei diritti più elementari dei lavoratori». Si tratta di uno
scenario di norme calate dall’alto e non conquistate dal basso, forse
non riproducibile altrove: qui un sindacato emanazione del Partito
comunista-Stato (un caso di «ibridismo istituzionale») agisce da camera
di compensazione, inefficiente e parziale, al momento però senza «reali
alternative». A smontare aspettative ingenue circa la coscienza della
classe operaia interviene la percezione dei propri diritti da parte dei
lavoratori, che nega — scrive l’autore — la nostra «visione manichea che
da un lato vuole un’accettazione passiva dello sfruttamento, dall’altro
un “risveglio” dei diritti», suggestione alimentata dagli scioperi
degli anni scorsi. Esiste negli operai, al netto di molte variabili, un
abisso tra la consapevolezza dei diritti individuali e quella dei
diritti collettivi (vedi la contrattazione e il ruolo del sindacato)
così come nei confronti delle leggi c’è una «conoscenza selettiva»: si
sa come si calcolano gli straordinari, ad esempio, ma se ne ignora il
monte-ore mensile. No, niente rivoluzioni a Oriente.