Corriere 20.11.16
Deborah, la morte da viva
Un romanzo
autobiografico di Esther Kreitman Singer, edito da Bollati Boringhieri,
descrive la condizione difficile in cui si trovavano le donne nelle
comunità ebraiche ortodosse dell’Europa orientale
di Giorgio Montefoschi
Siamo
ai primi del Novecento, e all’inizio de La danza dei demoni (Bollati
Boringhieri), il bel romanzo di Esther Kreitman Singer, sorella maggiore
di Isaac B. Singer (premio Nobel, autore di una moltitudine di romanzi e
racconti, fra i quali il meraviglioso La famiglia Moskat ) e del
fratello meno noto, Israel J. Singer (del quale bisogna almeno ricordare
La famiglia Karnowski e Sender Prager ). Nel villaggio polacco di
Jelhitz, un pugno di casupole a baracche di legno acquattato ai margini
di una foresta di pini, gli ebrei celebrano col riposo lo Shabbat.
Fuori, c’è la neve che copre tutto: i tetti, la pianura sconfinata, gli
alberi.
Nella casa accanto alla sinagoga vive la famiglia di Reb
Avram Ber, composta da lui stesso, un uomo dolce, grande esperto del
Talmud , ma per le vicende pratiche piuttosto sprovveduto; da sua moglie
Raizela, un donna malaticcia, scettica nei confronti del movimento
chassidico (formato dagli uomini pii che si riuniscono attorno a un uomo
ancora più pio di loro: lo tzadik ), appartenente a una famiglia di una
classe sociale superiore rispetto a quella del marito, sempre distesa
su un divano a leggere; il figlio Michael, che si divide fra lo studio e
le burle; la figlia Deborah, non bella, ansiosa, già misteriosamente
infelice. Una volta, Deborah ha chiesto a suo padre: «Papà, e io cosa
sarò, un giorno?». Stupito dalla domanda, perché nelle famiglie ebraiche
ortodosse le donne non possono aspirare ad altro che al traguardo della
felicità domestica che si raggiunge occupandosi del marito e generando
figli, Reb Avram si è portato la mano alla barba — come fa quando è
colto in contropiede — e le ha risposto: «Che cosa diventerai tu un
giorno? Ma niente, è ovvio!» Ora, quella risposta rimbomba nel silenzio
dello Shabbat ovattato dalla neve, rimbomba nella mente di Deborah, le
muove nel cuore una «strana brama».
Un giorno, la monotona vita
della famiglia — simile a quella che si svolge in tutti gli shtetl , i
villaggi abitati dagli ebrei nell’Europa orientale — è scossa da un
evento imprevedibile. Dalla città di R., richiamato dalla fama di Reb
Avram Ber, giunge un messo a proporgli di diventare primo lettore della
casa di studio: la yeshiva . Dopo una lunga discussione fra moglie e
marito (Raizela è naturalmente contraria), e una estenuante
contrattazione con il rabbino che vuole rilevare la casa e la prebenda
che Reb Avram lascia, si preparano i bagagli, vengono caricati sui carri
e comincia il viaggio. Deborah freme. Il cielo sembra riposare immobile
sopra il mondo. Dentro la foresta, l’aria è balsamica come in una notte
di maggio. Nelle case che accolgono i viaggiatori, le donne dispongono
sulle tovaglie candide il pane di zenzero e le conserve, le frittelle e
il formaggio, il succo di lampone e la panna. I contadini lavorano nei
campi, e Reb Avram, con gli occhi inumiditi, nel vedere tanto amore e
tanta bellezza, esclama: «Come sei splendido e dolce, Santissimo!».
Viene la notte. Quando il sole sorge sulla pianura «come un grumo di
sangue», i carri entrano nella sconosciuta città di R. e si dirigono
alla sinagoga.
Comincia, dunque, per la famiglia di Reb Avram, la
nuova vita. All’inizio, le cose sembrano andare per il meglio. Lo tzadik
è un uomo enorme, ruvido e molto attaccato ai suoi privilegi (ci sono
assistenti obbligati addirittura a presenziare alle sue sedute al
gabinetto), ma in sostanza si fa i fatti suoi ed è ben contento che,
grazie alla sapienza di Reb Avram, la yeshiva torni a riempirsi di
studenti. Raizela, sempre svogliata, va in visita alla moglie dello
tzadik e scopre, durante un tè servito con stoviglie d’argento, che come
lei nutre la passione per i libri. Michael è uno che sta bene
dappertutto. Dalle finestre spalancate della nuova casa entra il
mormorio delle preghiere. Fra gli studenti che seguono Reb Avram,
Deborah ne ha notato uno magro, allampanato, che ha due occhi ardenti,
un gabbano consunto, e cammina velocemente. Si chiama Shimon. Cosa lo
induce — si interroga Deborah — a correre sempre con quel passo nervoso?
E cosa cercano i suoi occhi, perennemente in cerca di qualcosa? Shimon
frequenta lo studio di Reb Avram e, essendo il migliore dei suoi
allievi, lo impegna in discussioni teologiche e giuridiche
interminabili. Deborah se ne innamora.
Questo momento di felicità,
però, dura poco. Presto Reb Avram scoprirà che lo tzadik è un avaro
arrogante che gli lesina il danaro fino a far soffrire la sua famiglia
di fame; l’inverno è rigido e cattivo; Raizela, immobile sul divano, è
una candela al lumicino; Reb Avram la vede soffrire e soffre; Shimon è
sparito; invano Deborah cerca di consolarsi leggendo di nascosto le
poesie d’amore di Pu š kin; finalmente, un incendio terribile devasta la
yeshiva ; tutto sembra perduto.
Viene la Pasqua. La neve si
scioglie. Con gli stivali e i gabbani inzaccherati di fango, gli ebrei
tornano a percorrere alacremente le strade del villaggio; le donne
entrano con un animo diverso nelle botteghe cariche di merci dove finora
hanno comprato a credito; nelle case si lustrano i candelabri per le
feste; sugli alberi spuntano le prime foglie; nell’aria si respira
l’alito tiepido della primavera; e da Varsavia — forse mandato dal cielo
— arriva in città Reb Zalman. È un uomo concreto, molto volitivo. In un
quartiere di Varsavia non hanno più né tzadik né rabbino. Rompete ogni
indugio — impone alla famiglia perplessa — e venite a Varsavia. Deborah
sogna: magari, a Varsavia, potrà incontrare Shimon.
Ora, il
racconto ha un cambio di passo. La grande città sulla Vistola non è
popolata soltanto di ebrei chiassosi e invadenti. Ha i quartieri
borghesi dei ricchi, nei quali è possibile avventurarsi a guardare le
vetrine, a scegliere un cappello. Ha i meravigliosi Giardini Sassoni
fino ai quali è possibile spingersi, anche se c’è un cartello
all’entrata sul quale è scritto «Vietato l’ingresso agli ebrei con il
gabbano e ai cani»; ha giovani donne intraprendenti che lavorano; ebrei
vestiti all’europea; giovani che si riuniscono segretamente per
preparare la rivoluzione. Nel petto di Deborah cresce un desiderio di
«qualcosa di sconosciuto» che è come una linfa in cui l’amore e la vita
si confondono. E un giorno, tra quei giovani rivoluzionari, incontra
Shimon. Entrambi non credono ai propri occhi. E il romanzo che fin qui,
guidato da un delicata mano femminile, ci aveva condotti da un villaggio
a un altro, da una casa a un’altra, nel segno di una mesta
rassegnazione, precipita in un vero abisso.
Ora, quel mondo
«piccolo e quieto» con le pareti di legno e il silenzio della neve, si
anima di un improvviso furore. Shimon, che è molto malato, scaccia
Deborah, nonostante la ami, perché si sente risucchiato dal fragore
sordo della morte. Lei non capisce e si dispera. Reb Zalman vuole a ogni
costo che si sposi con il figlio di un tagliatore di diamanti di
Anversa. Alla celebrazione del Kippur che si svolge in casa di Reb Avram
stipata di gente, nel soffocante odore delle candele e del sudore, le
donne pregano e piangono, pensando di non aver pianto in quel modo nella
vita. La carne è negletta perché ci si deve occupare soltanto
dell’anima durante l’Espiazione. Poi, a festa finita, la carne ha di
nuovo il sopravvento — nella festa — e l’anima capisce che le sue
pretese non sono ingiustificate e tutti mangiano e bevono fino a
stordirsi. Deborah è obbligata a fidanzarsi con l’uomo che non conosce.
Da Anversa vengono le donne di quell’altra famiglia a esaminarla. Lei ha
dolori, al cuore e ovunque, che a volte si placano e poi ritornano
violenti. Si celebra il matrimonio con lo sconosciuto. Le donne
dell’altra famiglia le rasano i capelli a zero e le ficcano in testa una
parrucca.
Anversa è una città triste. Il figlio del tagliatore di
diamanti si rivela un inetto. Tornano la miseria e la fame. Lontano,
per un pazzo che ha sparato a «un certo principe Vattelapesca», è
scoppiata la guerra fra l’Austria e la Serbia. A Deborah non importa
della guerra, vive come una morta in vita. Sta immobile alla finestra a
guardare i soldati. E neppure si ricorda quello che le aveva risposto
suo padre, quando gli aveva chiesto cosa lei sarebbe stata un giorno.
Cioè: niente.