Corriere 8.11.16
Matteo Renzi lo ha confessato in tv: «Sono troppo cattivo»
Le metamorfosi della politica: la cattiveria non è più un tabù
di Pierluigi Battista
Matteo
Renzi lo ha confessato in tv: «Sono troppo cattivo». Come il
protagonista del film d’animazione Cattivissimo me. Che poi nel film il
cattivissimo si redime e diventa buono, come l’avaro Ebenezer Scrooge
nel racconto natalizio di Dickens. Ma con la cattiveria si rischia, nota
Oscar Farinetti, di risultare antipatici. Cosa che alla sinistra è
accaduto spesso nel passato. Non sarà che la cattiveria, così
candidamente confessata e rivendicata dal premier rischia di diventare
il principale handicap per la sua già brillantissima carriera politica?
Di certo il cattivismo è l’antitesi del buonismo, una delle categorie
politico-antropologiche cruciali della Seconda Repubblica.
«Cattivissimo
me»? Sì, certo. Ma non è il titolo di un celebre film d’animazione, è
piuttosto la confessione di Matteo Renzi intervistato da Giovanni
Minoli: «Sono troppo cattivo». Che poi nel film il cattivissimo si
redime e diventa buono, come l’avaro Ebenezer Scrooge nel racconto
natalizio di Charles Dickens. Questa è un’altra storia. E che poi con
tutta questa cattiveria si rischia, come predica il fido Oscar
Farinetti, di risultare antipatici. Cosa che alla sinistra è accaduto
spesso nel recente passato, tanto da suggerire il titolo di un saggio di
Luca Ricolfi, Perché siamo antipatici, dove si spiega perché il
«complesso dei migliori», quel misto di saccenteria, disprezzo per il
popolo, snobismo, superbia elitaria, abbia creato una pellicola di
diffidenza tra la sinistra e la sua un tempo florida base popolare. Oggi
l’antipatia può declinarsi in forme nuove: una certa protervia, una
certa insofferenza per le idee diverse («gufi»), una certa inclinazione a
equiparare il dissenso a una turba psicologica nutrita di rancore e
malanimo («rosiconi»). Non sarà che la cattiveria, così candidamente
confessata e rivendicata dal presidente del Consiglio negli studi di
Minoli su La 7, rischia di diventare il principale handicap per la sua
già brillantissima carriera politica?
E anche questa cattiveria,
del resto, regala al renzismo un ulteriore elemento di discontinuità. Si
parla di Renzi come un figlio del berlusconismo. Ma Berlusconi voleva
apparire buonissimo. Un Caimano secondo i suoi nemici, Berlusconi non
sopportava il conflitto, la rudezza, l’asprezza delle accuse. Lui che
avrebbe voluto essere il Thatcher italiano, quando una delegazione di
minatori del Sulcis andò a manifestare sotto Palazzo Chigi, non fece
quello che avrebbe fatto la Lady di ferro: mandare la polizia a
disperdere i minatori. No, si mise un caschetto giallo e disse ai
manifestanti di sentirsi uno di loro. Lui stesso ha del resto confessato
di farsi convesso con i concavi e concavo con i convessi, per evitare
urti, durezze, cattiverie reciproche. Dopo una tragedia del mare che
aveva provocato l’ecatombe di profughi albanesi, Berlusconi volle subito
adottare tra le lacrime una famiglia di sopravvissuti. Ci si domandò se
si trattasse di lacrime vere, ma il messaggio era: siate più buoni. Non
c’era rivendicazione di cattivismo.
Il cattivismo, poi, è
l’antitesi del buonismo, una delle categorie politico-antropologiche
cruciali nella storia della Seconda Repubblica. Veramente nessuno ha mai
rivendicato di essere «buonista», casomai di essere buono e basta. Ma
«buonista» era l’epiteto che la destra affibbiò a uno dei leader
ulivisti, Walter Veltroni. Ne scaturirono infiniti dibattiti, ma di
certo la bontà e il buonismo si sarebbero malamente assortiti con
l’orgoglio della cattiveria sbandierato da Matteo Renzi, con il rischio
dell’antipatia, e dunque, nell’era della politica a rimorchio del
consenso, con il rischio dell’insuccesso. E poi, per somma ironia, se
proprio si vuole trovare un precursore della cattiveria politica, quello
è il nemico di oggi di Matteo Renzi, lo spettro, il fantasma del
passato: Massimo D’Alema. Il quale D’Alema, si sa, non avrebbe
rinunciato per nulla al mondo al gusto della battuta feroce ma con il
suo sarcasmo ha generato una vastissima corrente di antipatia da parte
di chi quelle battute non apprezzava. Il paradosso è che Renzi, oggi
impegnato in un duello rusticano con Massimo D’Alema, abbia ereditato
dal suo attuale nemico una certa propensione alla cattiveria. Mentre è
difficile scorgere cattivi veramente cattivi nei politici della Prima
Repubblica (Andreotti era cinico e sornione, non cattivo), nella nuova
politica incardinata sulla psicologia dei leader la cattiveria diventa
un elemento stilistico di cui gli storici futuri del costume politico
del nuovo millennio dovranno tener conto con una certa attenzione.
Mentre sull’antipatia i giudizi potranno essere diversi, così come su
quello strano fenomeno della psicologia politica collettiva secondo il
quale la simpatia iniziale si trasforma impercettibilmente ma
inesorabilmente in antipatia. Perché eravamo simpatici?