martedì 8 novembre 2016

Corriere 8.11.16
Bellocchio e i tormenti dell’anima tra silenzi, menzogne e solitudini
Mastandrea protagonista della storia tratta dal romanzo di Gramellini
di Paolo Mereghetti

Più di altri autori italiani, Marco Bellocchio ha spesso cercato nella letteratura spunti per i suoi film. Lo ha fatto con Cechov ( Il gabbiano ), Pirandello (Enrico IV ), Radiguet ( Diavolo in corpo , anche se con molta libertà), Kleist ( Il principe di Homburg . Ma anche il protagonista di Il sogno della farfalla recitava a teatro l’autore tedesco). Lo fa adesso con il romanzo di Massimo Gramellini Fai bei sogni .
Il regista piacentino — come aveva sempre fatto in passato — ne ha esaltato i temi a lui più vicini, restando (più o meno) fedele nella lettera ma impossessandosi dello spirito. Ed è per questo motivo che emerge con forza quella sfida tra ambizioni della ragione e trappole dei sentimenti che spesso ha attraversato l’opera del regista, divisa tra sogno e desiderio da una parte e dall’altra il bisogno di governare con la propria intelligenza quelle pulsioni. Con tutte le grandi e piccole nevrosi che quel conflitto si porta dietro.
Nel film, dove il sapiente montaggio di Francesca Calvelli mescola le varie età della vita — l’infanzia dell’amore e della solitudine, l’adolescenza del doloroso incontro col mondo, la maturità della pacificazione interiore — il protagonista (Nicolò Cabras quando è bambino, Dario Del Pero quando è adolescente, Valerio Mastandrea quando è adulto) viene continuamente sollecitato a confrontarsi con un mondo che passa repentinamente dall’accoglienza all’allontanamento, dal fascino alla paura.
Quando l’amatissima madre (Barbara Ronchi) sparisce dalla sua vita — per un attacco cardiaco «fulminante» gli viene spiegato, con una bugia cui crederà per molti anni — il piccolo Massimo si trova a fare i conti con un mondo che improvvisamente risponde ad altre logiche: non più il calore dell’affetto o le complicità «proibite» (Belfagor in televisione, con la seduzione della paura esorcizzata dall’abbraccio materno) ma l’irrazionalità delle giustificazioni religiose, i silenzi, le bugie, la solitudine.
Sono le scene dove Bellocchio racconta il vuoto inquietante del quotidiano, intrecciando canzoni e preghiere, ricordi televisivi e giochi infantili, mentre il mondo intorno prende le forme di una serie di ritualità — dai pranzi ai preti ai parenti agli amici — che diventano gabbie dello spirito prima che del corpo. A volte affidandosi a sapienti silenzi (l’inquadratura prospettica del corridoio di casa, che sa di vuoto e desolazione e non di calore o rifugio), a volte puntando sulle figure di due preti interpretati da Roberto Di Francesco e Roberto Herlitzka, campioni del pietismo più peloso o dell’ambiguità più insinuante, a volte raccontando il vuoto affettivo di un padre (Guido Caprino) imprigionato nel proprio ruolo.
E sempre scavando nelle solitudini di un’infanzia schiacciata da una bugia che peserà per la vita sul protagonista.
In altri momenti, perché costretto dallo svolgimento autobiografico del romanzo, il film (sceneggiato dal regista con Valia Santella ed Edoardo Albinati) perde quella tensione che si insinuava nelle pieghe del quotidiano, i fatti diventano fin troppo didascalici (l’episodio di Sarajevo, pur accorciato rispetto alla versione presentata a Cannes, l’attacco cardiaco, che lo fa incontrare con la dottoressa interpretata da Bérénice Bejo, certe scene di vita giornalistica), ritrovando infine forza in alcuni squarci che Bellocchio carica di un’energia inquietante, come l’incontro con il simil-Gardini interpretato da Fabrizio Gifuni.
Così alla fine l’effetto è quello di un film sussultorio, che segue le ondivaghe e inconfessate richieste d’affetto del protagonista, attenua l’effetto svelamento sulla morte della madre, elimina gli snodi più melodrammatici ma ne sottolinea l’importanza con silenzi e immagini evocative. Proprio come l’orrore represso del Bacio della pantera di Tourneur di cui il protagonista vede una brevissima scena acquatica in televisione.