Corriere 7.11.16
Jonathan Safran Foer
«Il sogno americano? È morto»
La
possibilità di uscire dai confini della propria classe sociale è
svanita. Trump gioca su queste frustrazioni. Ma se perde, il suo
disprezzo per la verità non lascerà il segno
intervista di Massimo Gaggi
NEW
YORK «Ci sono tante cose che ho trovato gravi e disgustose nella
campagna di Donald Trump: lo sberleffo a un disabile imitando i suoi
handicap fisici, le cose tremende che ha detto sulle donne, gli
immigrati ispanici, i musulmani. Ma ciò che mi ha offeso di più è il suo
costante e sfrontato disprezzo per la verità. Un rapporto totalmente
casual con la realtà dei fatti che, a seconda delle convenienze, può
anche essere totalmente ignorata. Un metodo che il candidato ha proposto
come modello anche al suo popolo: un vero avvelenamento delle
coscienze».
Jonathan Safran Foer, impegnato in questi giorni in un
tour americano per il lancio del suo nuovo romanzo «Here I am»
(«Eccomi», nell’edizione italiana di Guanda), mi racconta da Detroit la
sua indignazione per come si è svolta la campagna elettorale. E, avendo
incontrato gente in ogni parte del Paese, confessa anche i suoi timori
per le conseguenze che l’abbassamento della discussione politica a
livelli di degrado mai visti prima, può avere nella società americana.
Trump
ha usato una retorica devastante, ma anche la Clinton ha dato, a volte,
versioni non veritiere dei fatti, ad esempio sull’«Emailgate».
«Anche
lei ha fatto i suoi errori, certo, ma i due sono su piani diversi. Lei
ha cercato a volte di presentare un fatto in modo favorevole, ma nella
campagna, nell’affrontare i problemi dell’America e del mondo, si è
confrontata con la realtà. Ha mostrato rispetto per la verità. Trump no.
Non si è limitato alle singole menzogne: ha disegnato un mondo
immaginario e ha preteso di far credere agli americani che quella sia la
realtà: è questo che mi offende di più».
Il suo disprezzo va anche agli elettori di Trump o pensa che il loro risentimento sia comprensibile?
«Non
penso affatto che a votarlo sia un popolo di bigotti fanatici o
ignoranti. È, in gran parte, gente frustrata, scoraggiata, che ha visto
il sogno americano svanire davanti ai propri occhi. Io lo capisco bene
perché la mia famiglia è la materializzazione di quel sogno: mia madre è
nata in Europa, in un “displaced person camp” (i campi creati nel
Dopoguerra per ospitare provvisoriamente i profughi, soprattutto i
sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, ndr ). Venne in America da
piccola, non sapeva una parola d’inglese. Pian piano è arrivata a
mettere su il suo negozio di genere alimentari, ha raggiunto un discreto
livello di sicurezza economica, ha dato ai suoi figli un’istruzione di
buona qualità nella scuole pubbliche. Eccolo il sogno americano: il
principio delle pari opportunità, tutti gli uomini creati uguali, e il
diritto al perseguimento della felicità che trovano riscontri concreti.
Ma oggi per la maggior parte dei nuovi americani la possibilità di
progredire, di uscire dai confini della propria classe sociale, è
svanita. Il sogno americano è morto, è rimasto solo il mito. Trump è la
personificazione della frustrazione di quest’America. È stato abile a
diventare il referente dei delusi ma, anziché proporre soluzioni, ha
solo alimentato ulteriormente la rabbia».
Comunque vada, quale sarà l’effetto Trump sulla società americana?
«Il
degrado del discorso politico, l’imbarbarimento del dibattito, la
sostituzione dei ragionamenti col puro rumore finalizzato ad attirare
l’attenzione produrranno danni permanenti. Sotto i colpi di Trump la
parola ha perso di peso, di significato. Non conta quello che si dice,
basta alzare il volume. Un tempo le campagne elettorali erano un
confronto tra progetti, proposte di riforma, diverse visioni del mondo.
Chi faceva politica poteva avere interessi, ma pensava anche di poter
rendere il mondo un posto migliore. C’era una componente etica, di
doveri civili, nella politica. Tutte cose che si sono affievolite negli
ultimi anni, voto dopo voto. Ora sono addirittura scomparse in una
campagna che è stata solo un “popularity contest”, una gara di
popolarità. Non conta cosa si dice ma quanta gente va ai comizi e viene
catturata davanti a un teleschermo».
Cambieranno sensibilità e
comportamenti della gente? Trump, ad esempio, ha «sdoganato» l’elusione
fiscale definendo brillanti i marchingegni che ha escogitato per non
pagare le tasse.
«Sì, ma la misura del cambiamento dipenderà dal
voto: la storia la scrivono i vincitori. Se prevale Hillary le furbizie
di The Donald saranno quelle di uno che ha fallito. Se vince Trump sarà
lui a ridicolizzare noi e la corsa verso il fondo non avrà fine».
C’è
chi teme disordini in caso di una sua sconfitta: lui stesso si è
rifiutato di impegnarsi a riconoscere la legittimità del voto.
«Se
Trump perde non credo che alimenterà sommosse. È pur sempre un uomo
d’affari con un brand da proteggere. Se invita all’insurrezione non
diventerà comunque presidente e danneggerà il suo marchio, oltre a
rischiare di finire in galera. Non bisogna dimenticare, e lui lo sa
bene, che il buon esito dei suoi affari dipende anche da un
atteggiamento disponibile o almeno tollerante nei suoi confronti degli
abitanti delle grandi aree metropolitane».
Da scrittore di romanzi come interpreta quello che sta uscendo dall’Fbi?
«Una
lotta interna tra fazioni della polizia federale e tra governo ed Fbi.
Col suo capo, James Comey, che ha commesso un vero e proprio suicidio
professionale».