Corriere 7.11.16
La riforma costituzionale e la sua deriva demagogica
Ragione di più per dire «No»
di Marco Follini
Caro
direttore, a difesa della «sua» riforma, Renzi ha mobilitato tutte le
risorse del suo spirito giovanile. Si è scelto competitori televisivi
più collaudati, si è prodigato a spiegare che con le nuove regole
finiranno i vecchi giochi, ha battuto e ribattuto sui tasti del ricambio
generazionale che tanto gli sono cari, è sceso in guerra contro i suoi
predecessori di tutti i colori politici. È una strategia elettoralmente
vincente? Si vedrà. È una strategia istituzionalmente corretta? Non
direi proprio.
Una buona riforma dovrebbe unire. Dovrebbe
prescindere dagli avversari. Tanto più dopo la pessima riuscita di
quelle due pseudo riforme che abbiamo alle spalle (2000, 2005), e che
sono fallite anche per quanto erano politicamente divisive. E invece,
anche questa volta, si presenta il nuovo assetto costituzionale come la
prova della virtù di una sola parte. Alzando ancora di più la posta
della contesa.
Una buona riforma dovrebbe inoltre, per quanto
possibile, prescindere dal tempo. Il suo effetto si dispiegherà infatti
in un arco assai più lungo della durata del governo. Il derby tra
vecchio e nuovo, che ora sembra così attuale, troverà a suo tempo altri
interpreti. E i rinnovatori di oggi vestiranno a quel punto i polverosi
costumi dei loro attuali antagonisti.
Insomma, un briciolo di
lungimiranza avrebbe dovuto suggerire di non cadere nella trappola di
una riforma troppo di parte. Né di una riforma troppo alla moda. E
invece, si insiste proprio su questo registro, nella convinzione che
esso porterà consenso e voti nella direzione del «Sì». È un errore?
Credo di si. Ma credo anche che si tratti di un errore voluto, niente
affatto casuale.
Il fatto è che il premier ha scelto di battere la
strada di una sorta di «grillismo di palazzo». Egli punta a strappare
ai suoi oppositori alcuni argomenti antipolitici facendoli propri.
Immagina che dando voce dai bastioni di Palazzo Chigi a una sorta di
populismo morbido, quasi istituzionale, i populisti a denominazione
d’origine controllata prima o poi batteranno in ritirata. Così, egli
inveisce contro la politica politicante e si offre come il vendicatore
dei suoi torti.
La questione è tutta qui, ed è profonda. Si tratta
di decidere se all’onda di piena dell’antipolitica convenga opporre la
diga di una impervia battaglia politica e culturale — sapendo che questa
impresa è lunga e rischiosa. Oppure se non convenga invece approntare
alla bell’e meglio un piccolo riparo costruito con qualche furbesca
concessione verbale ai propri avversari.
È un argomento che
travalica il referendum. Perché in realtà la politica italiana si è
esercitata da quasi trent’anni a questa parte nel fare astutamente
propri gli argomenti di quanti la volevano mettere sul banco degli
imputati. Dalle picconate quirinalizie di Cossiga al disdoro
berlusconiano verso i professionisti della politica fino alle più
recenti invettive renziane contro l’esercito dei rottamati, molti
protagonisti hanno pensato di salvarsi l’anima facendo eco alle più
diffuse invettive antipolitiche.
È di questo che in fondo si
discute. Se la politica possa ancora proporsi per quello che è. O se
essa invece debba indossare una maschera che la renda accattivante agli
occhi dei suoi contestatori.
Presentare la riforma come la
saracinesca che d’un tratto viene fatta calare su stagioni politiche
offerte tutte indistintamente al pubblico ludibrio non mi convince. Che
poi a presentarla così sia il fulcro del potere attuale mi convince
ancora meno. È una deriva demagogica quella che sta prendendo piede. È
paradossale che il governo l’abbia fatta sua. Ragione di più, io credo,
per dire «No».