lunedì 7 novembre 2016

Corriere 7.11.16
Graphic Novel
All’assalto del mondo con le matite La rabbia dei nuovi cannibali
di Emanuele Trevi

È davvero un bel libro La rabbia , ricca e sorprendente antologia del fumetto italiano d’avanguardia curata da Valerio Bindi e Luca Raffaelli per Einaudi Stile libero. Premetto che questa definizione di «fumetto italiano d’avanguardia» è problematica ed è una mia sintesi del tutto arbitraria. Probabilmente i diretti interessati preferirebbero parlare di «arte disegnata e stampata». Così in effetti recitano le locandine di Crack! , l’incredibile festival che si svolge al Forte Prenestino, il più vetusto e glorioso centro sociale romano.
È da quel ribollente minestrone creativo che nasce questa antologia. Ai lettori più avanti con gli anni, sfogliarla farà venire in mente quell’età d’oro a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, quando a ereditare la spinta propulsiva di riviste storiche come «Linus» e «Alter» arrivarono nelle edicole «Il Male», poi «Frigidaire», e la più matta e anarchica di tutte le testate, l’indimenticabile «Cannibale». Ma la nostalgia è sempre una pessima consigliera per il critico. La rabbia è la fotografia di un gruppo di artisti molto più orientati verso il futuro, da un punto di vista intellettuale ed emotivo, di quanto fosse possibile a maestri come Andrea Pazienza o Filippo Scozzari, che semmai (come i loro colleghi francesi) furono gli insuperabili interpreti del tramonto di un intero secolo e dei suoi miti. E del resto, le date sono eloquenti: il più anziano, per così dire, degli autori presenti nell’antologia, Federico Primosig, è nato nel 1978; la più giovane, Sonno, è addirittura del 1991. Per usare una metafora un po’ pedestre ma efficace di Virginia Woolf, nessuno di loro ha ancora «intaccato il capitale» in maniera irrimediabile. Nemmeno Zerocalcare, che sicuramente è l’autore con più seguito tra quelli presenti in La rabbia , e si è già lasciato alle spalle, dalla Profezia dell’armadillo del 2011 al più recente Kobane Calling , ben sette titoli.
Forse Zerocalcare è stato anche il più diligente nel reagire alla proposta dei curatori, che era un invito a declinare ognuno a modo suo il tema, o il sentimento, o la necessità della «rabbia», appunto. Ciò si deve alla vena (per ora) più generosa dell’ispirazione di Zerocalcare, che è un autobiografismo radicale, capace di risultati spassosi o commoventi a seconda dei casi e delle svolte della storia. Se in letteratura abbiamo assistito al periodo (ancora lungi dall’esaurirsi) dell’«auto-fiction», potremmo dire che Zerocalcare è il protagonista assoluto dell’«auto-comic». Ma non si tratta mai di qualcuno che racconta i fatti suoi dopo averne distillato tutto il senso e l’implicita saggezza. Per Zerocalcare il parlare di sé si configura sempre come un’indagine, nella quale anche un ricordo d’infanzia ripensato mille volte attende il momento giusto per rivelare il suo segreto.
Con il suo rifiuto totale dei chiaroscuri, l’artista romano ha inventato un linguaggio di straordinaria agilità narrativa, un’epopea dei rapporti tra la fragilità del singolo e il perenne assedio del mondo. Non fa eccezione la storia presente in La rabbia . Così passi dalla parte del torto è una divertente variazione sul tema di un’autocoscienza alle prese con la propria aggressività, suscitata da tutta quella feccia umana che, sprovveduta di qualunque talento, vive su internet per insultare chiunque si macchi del peccato mortale del successo.
L’autobiografismo mi sembra molto più attenuato o inesistente negli altri lavori scelti da Bindi e Raffaelli. Più che quella delle poetiche e delle visioni del mondo, a colpire è la varietà delle tecniche narrative. Nell’introduzione alle sue bellissime Ballate in ritardo , Sonno confessa che per lei, nella maggior parte dei casi, «la struttura logica di una storia è limitante». Ma non si tratta certo di una poetica valida per altri, o addirittura di una velata polemica. In ogni tipo di arte, comprendere ciò che non si riesce a fare, ciò che appare soggettivamente «limitante», è una presa di coscienza essenziale.
Nel fumetto questa verità universale è forse ancora più vera, perché non c’è nulla di neutro (come può essere un semplice programma di scrittura per uno scrittore), e tutto è investito da una tale carica di soggettività che anche il più dozzinale pennarello da cartoleria può diventare un segno inconfondibile e uno strumento del destino. Senza parlare del tipo di carta o delle tecniche di colorazione.
Di tutti questi autori, infine, non potrà passare inosservata la qualità della scrittura. Non solo perché contiene dei testi verbali, il fumetto è l’arte più vicina alla letteratura: c’è qualcosa di più profondo e necessario alla base di questa affinità. Riproposto e variato sul filo di una storia, il segno del fumetto è molto più «linguistico» di quello della pittura. Ma ogni scrittura, per parte sua, coltiva il sogno di un’ultima metamorfosi che la riporti al disegno, spogliandola di ogni convenzionalità e impersonalità. Proprio come le parole dello scrittore che nelle ultime righe del Barone rampante Italo Calvino immaginava identiche ai rami e alle foglie del bosco in cui si era svolta la storia appena terminata.