Corriere 5.11.16
Referendum. La doppia battaglia
di Ernesto Galli della Loggia
Il
4 dicembre, data del referendum sulla revisione della Costituzione, si
combatteranno due battaglie. Innanzi tutto la battaglia forse ultima e
decisiva di una delle tante, interminabili guerre civili italiane: la
guerra civile iniziata tanto tempo fa all’interno della Sinistra
italiana tra riformisti e massimalisti. Guerra riaccesasi poi negli anni
Sessanta del Novecento, con l’ingresso dei socialisti nel
centrosinistra, da lì proseguita in tutti i decenni seguenti tra Psi e
Partito comunista in modo più o meno sotterraneo o virulento (vedi gli
anni di Craxi), e poi ancora ai nostri giorni all’interno del Partito
democratico.
Si combatterà tuttavia anche una seconda battaglia.
Una battaglia dagli schieramenti assai più frastagliati che accanto alla
sinistra massimalista vede non solo la presenza consistente, e
apparentemente inspiegabile, di una parte del mondo cattolico insieme ad
altri settori significativi del vecchio personale politico della Prima
Repubblica. Ma come si spiegano queste due battaglie sovrapposte e la
bizzarra alleanza ora detta? Si spiegano con il fatto che in realtà non è
una, ma sono due le poste in gioco del referendum: intrecciate tra loro
ma in certo senso nascoste una nell’altra. La posta più evidente — oggi
come tanti anni fa, all’epoca della «grande riforma» ventilata dal
Partito socialista craxiano — è una riforma della Costituzione che
nell’opinione dei suoi sostenitori si prefigge una maggiore
governabilità del Paese.
Una governabilità che implica
l’eliminazione di almeno alcuni degli elementi che provocano l’impasse
ricorrente del nostro sistema politico, cioè la sua «normale» incapacità
di funzionare normalmente.
Ma, come dicevo, questo aspetto del
referendum ne sottintende un altro, mi pare, la cui importanza,
paradossalmente, è sottolineata proprio dal silenzio che fin qui l’ha
avvolto. Con il promuovere una revisione della Costituzione in chiave
funzionalista (e con l’aggiungervi magari una legge elettorale ad hoc ),
si tratta infatti di mettere fuori gioco una volta per tutte l’uso
ideologico-politico che della stessa Costituzione si è finora fatto e si
vorrebbe continuare a fare. Ed è da qui che trae origine la confluenza
nel partito del No della posizione della sinistra massimalista da un
lato, e dall’altro di quella di altri di estrazione affatto diversa, ex
democristiani e no, aventi tutti però le proprie radici nella Prima
Repubblica.
Per capire il motivo di una tale confluenza bisogna
ricordare che a partire dall’entrata in vigore della Carta
costituzionale il suo uso è stato duplice, con due protagonisti assai
diversi a seconda che l’uso ora detto riguardasse la prima o la seconda
parte della Carta stessa.
La seconda parte — quella riguardante
gli organi di governo e di garanzia — con il suo esasperato
parlamentarismo, con la divisione di fatto del potere esecutivo reale
tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio
(espressione in genere di maggioranze diverse), con l’autonomia piena
dei ministri (che vuol dire dei loro gabinetti), con una magistratura
inquirente libera di gestire l’azione penale a sua discrezione e in
regime di virtuale irresponsabilità nonché con la magistratura padrona
delle proprie carriere — la seconda parte della Costituzione, dicevo, ha
rappresentato finora un dispositivo formidabile capace di tenere
insieme tutti i pezzi importanti della classe dirigente mantenendo al
vertice i partiti e favorendo la loro massima libertà di movimento. A
questo sono serviti di fatto la precarietà di ogni equilibrio, il mutare
e il sommarsi delle ambizioni e delle combinazioni, i colpi di mano, la
trasversalità delle influenze, i necessari consociativismi, ma anche la
diffusione massima del potere, fosse pure quello d’interdizione: vale a
dire tutti gli ingredienti che erano insiti nella seconda parte di cui
dicevo sopra e che hanno caratterizzato la vita politica e pubblica del
Paese. Storicamente, insomma, l’Italia della partitocrazia, del suo
governo allargato e della sua classe politica, hanno avuto nella seconda
parte della Costituzione il loro autentico statuto fondativo e la loro
massima garanzia.
C’era poi la Costituzione della prima parte, in
particolare quella degli articoli 29-47 riguardanti i «rapporti
etico-sociali» e i «rapporti economici». Articoli che grazie alla loro
ispirazione ipergarantista ma insieme statal-solidale dai toni
simil-socialisti, hanno fino a oggi rappresentato, nelle circostanze più
varie, la facile giustificazione per la cultura del radicalismo
antiriformista a valenza estremistica che ha dominato tanti aspetti
della nostra società. Quella cultura, per intenderci, nata nelle viscere
dell’antico ribellismo italiano, poi nel Dopoguerra cresciuta e
alimentata nell’ambito della Sinistra comunista per trasferirsi negli
ultimi tempi specialmente nei Cinque Stelle o in un vasto sentire
diffuso di senza partito. È la cultura che nel corso del tempo si è
presentata di volta in volta come la cultura del no alla «legge truffa» e
a favore della retribuzione variabile indipendente, del «via le basi
della Nato dall’Italia» e della negazione dell’esistenza del terrorismo
rosso, la cultura del «benaltrismo» continuo di fronte a ogni riforma
che non fosse «di struttura», della difesa dei diritti acquisti in
materia di pensioni, della contestazione alle centrali atomiche per
l’elettricità così come oggi dice no alla Tav, reclama il «salario
sociale», la «pace» senza se e senza ma, l’utero in affitto, e
naturalmente si sgola contro i «politici tutti ladri». Sempre,
invariabilmente, in nome di qualche articolo della Carta costituzionale.
È
questo duplice uso storico della nostra Costituzione di cui ho detto —
prettamente politico da parte dei partiti e del suo personale, e
viceversa esplicitamente ideologico da parte della Sinistra
antiriformista in servizio permanente effettivo — che spiega il fronte
bizzarramente composito — da Gasparri a Rodotà a Vendola, passando per
Cirino Pomicino — che oggi si oppone al progetto di revisione
costituzionale. Ognuno difende la «sua» Costituzione, quella che gli è
servita e che vorrebbe gli servisse ancora. Che essa possa anche servire
al futuro del Paese nel suo complesso, su questo, invece, è forse
doveroso nutrire più di un dubbio.