sabato 5 novembre 2016

Corriere 5.11.16
Brexit e non solo
Democrazia e volontà popolare
di Massimo Nava

La decisione dell’Alta Corte inglese, che rinvia la Brexit al Parlamento, suggerisce una riflessione al di là della vicenda interna del Regno Unito. Nella più collaudata democrazia, l’esercizio della democrazia diretta è messo in discussione dal primato della democrazia rappresentativa (pur con l’anomalia della Camera dei Lord), con una sentenza che contraddice la volontà dell’esecutivo. Quale forma rispecchia meglio la volontà popolare? Quella che permette ai cittadini di scegliere la soluzione più consona ai loro interessi, o quella che consente alla maggioranza degli eletti che esprime il governo, di decidere per il bene di tutti?
Nel caso di Brexit, ma ci sono altri esempi, come i referendum del 2005 con cui francesi e olandesi bocciano il trattato costituzionale, occorre valutare le conseguenze delle decisioni popolari e ancor più la messa in discussione dei risultati. L’establishment britannico e i governi di Scozia e Irlanda hanno denunciato conseguenze disastrose della Brexit, oltre a notare che la maggioranza favorevole era una minoranza per lo più inglese. A suo tempo, i governi europei corsero ai ripari costruendo il trattato di Lisbona e contraddicendo la bocciatura dei cittadini. Ma nella presunzione che il popolo abbia preso una strada sbagliata, si rischia di vanificare un diritto.
Si può dissentire sul fatto che la permanenza della Gran Bretagna in Europa sia un bene per gli inglesi. O se sia meglio per gli europei bloccare forme istituzionali d’integrazione. Ma è innegabile che la volontà popolare si sia espressa anche pro o contro il governo in carica e non solo sull’Europa. Lo strumento referendario tende a ridurre il potere dei rappresentanti eletti e del governo se prevale un sentimento di opposizione che spinge i cittadini a votare come propongono leader e partiti d’opposizione.
Si dovrebbe considerare anche il grado di consapevolezza nel percorso di formazione delle decisioni. Quantomeno, si impone una riflessione sul senso stesso della democrazia diretta rispetto all’affidare i destini di una collettività ai propri rappresentanti. Nella Polis ateniese del V secolo a.C. la democrazia diretta era esercitata da non più del dieci per cento dei cittadini. Anche la Comune di Parigi e la Costituzione post Rivoluzione, furono forme di democrazia diretta che esaltavano il mito di Rousseau e la «volontà generale». Si sa come finì.
La crisi della politica e la partecipazione mortificata nel caos dei social network rafforzano l’ideale della democrazia diretta in opposizione alle élite, nazionali ed europee, sulle quali si rovescia un castello di accuse: distanza dai cittadini, interessi di casta, tecnocrazia finanziaria. Ma il bisogno di partecipazione può diventare l’onda lunga e distruttrice del populismo. Un populismo che mostra la doppia anima di chi vorrebbe il leader salvifico dalle pastoie della politica e di chi vorrebbe esprimersi su tutto, magari in Rete, «imprigionando» l’esecutivo, «colpevole» di non ascoltare la voce del popolo.