Corriere 3.11.16
Confessioni Argerich
«Soffro di ansia, temo sempre di più il palcoscenico
Barenboim? Da bambini giocavamo sotto il piano»
intervista di Giuseppina Manin
«È
la persona che conosco da più tempo, quasi 70 anni. Con Daniel abbiamo
giocato insieme, suonato insieme. E non ci siamo mai persi di vista».
Martha Argerich regala uno dei suoi sorrisi lievi al ricordo di quei
giorni lontani, quando lei e Barenboim erano bambini e nulla potevano
immaginare di quello che la vita gli avrebbe riservato. Un futuro di
trionfi nei teatri del mondo. Un destino da leggende della musica, tante
luci sulla ribalta, tante ombre dietro le quinte. E ora questi
splendidi settantenni, uniti per sempre dal pianoforte e da una comune
anima argentina, si ritroveranno per la prima volta insieme alla Scala
il 7 novembre, apertura di stagione della Filarmonica, lei con il primo
Concerto di Beethoven, lui con la Settima di Bruckner.
Vi siete incontrati al pianoforte?
«Sotto
un pianoforte! Io avevo 8 anni, lui 7. Le nostre madri ci avevano
portato in una casa di Buenos Aires punto di incontro per i musicisti
che passavano di lì. Nonostante l’età eravamo già pianisti, entrambi
esordienti proprio in quell’anno, il 1949. Ma quel pomeriggio,
approfittando della confusione, ci siamo nascosti sotto il piano e ci
siamo messi a giocare. Eravamo bambini prodigio, ma anche bambini
normali».
Le vostre vite hanno molti tratti comuni, due famiglie
di ebrei russi immigrati in Argentina per sfuggire ai progrom, poi di
nuovo esuli ai tempi della dittatura: i Barenboim in Israele, lei e la
sua famiglia in Austria.
«L’Argentina era un Paese aperto
all’accoglienza, forse per questo tutti e due abbiamo sempre cercato di
sostenere i rifugiati. Daniel con la sua straordinaria orchestra Divan,
di cui io sono socia onoraria».
Il ‘49 è stato anche l’anno del
suo debutto a Buenos Aires con il primo Concerto di Beethoven. Lo stesso
che ora eseguirà alla Scala.
«Un brano chiave della mia vita. Eseguirlo a otto anni mi fece tremare il cuore. Ma anche adesso...».
Una voglia di fuga che le è rimasta addosso. Sono noti i suoi tentativi di resistenza prima dei concerti, i suoi forfait...
«Suonare
in pubblico è il mio problema. Più passa il tempo più amo la musica ma
esibirmi continua a mettermi ansia. È un atteggiamento contraddittorio,
lo so, ma è così. Daniel dice che è colpa del mio perfezionismo. Claudio
Abbado, altro amico, mi ammoniva: “Ricordati che il nostro mestiere è
un privilegio”. E io: “Sì, ma non necessariamente in pubblico”. La
solitudine del pianista è terribile».
Difatti da tempo non suona
più da sola. A Lugano ha creato il Progetto Martha Argerich, laboratorio
di incontri con amici e giovani talenti.
«Mi piace suonare con
gli amici. Mi aiutano a vincere le paure, a ritrovare la gioia di fare
musica. Con Daniel è bellissimo. Lui non è mai stanco. Alla fine di un
concerto se gli dico: adesso suoniamo noi due. Lui mi risponde sempre:
suoniamo!».
Anche Abbado avrebbe voluto diventare pianista.
«Ed
era pure bravo. Si era perfezionato con Friedrich Gulda, il mio
maestro. Ma poi si arrese. Diceva che per fare quello che un pianista fa
in un paio d’ore a lui ne servivano otto. Era giovane Claudio. Eravamo
tutti così giovani... Quando ho incontrato Pollini lui aveva 15 anni e
io 16. Abbiamo suonato insieme Petrushka ».
E a 18 anni la sua prima volta alla Scala.
«Sono
entrata e ho pensato di essere al Colon di Buenos Aires, dove avevo
debuttato a 11 anni. In effetti il Colon è un “doppio” della Scala,
costruito da un architetto italiano. Mi sono sentita a casa».
Difatti
è tornata spesso. Con Mehta, Mischa Maisky, Accardo e Ashkenazy.
Dall’ultima volta sono passati 22 anni, anche se a giugno lei ha fatto
la sorpresa di suonare in piazza Duomo, con Chailly e la Filarmonica...
«Con
Chailly esiste un legame saldo, abbiamo fatto musica insieme a Berlino,
a Lipsia... E un mese fa a Parigi con la Filarmonica della Scala.
Un’orchestra di grande qualità, sono felice di ritrovarla».
Quanto è difficile essere una leggenda del piano?
«Il
pianoforte è un amante esigente, ti vuole solo per sé. Ho provato a
tradirlo, mi sono sposata tre volte, ho avuto tre figlie. Ma alla fine
l’amore totale è lui. A cui sacrifichi gli affetti, anche i più cari.
Non so se sono stata una buona madre, potrei tentare di migliorarmi come
nonna».
Il tempo che passa quanto incide sul suo rapporto con il piano?
«A
75 anni sei costretta a fare i conti con il tuo corpo. Con la schiena,
con le gambe. Poi però ti siedi alla tastiera e passa tutto».
Progetti per il futuro?
«Ridurre
gli impegni. Ma nonostante mi proponga di suonare di meno alla fine
suono sempre di più. Non so quanto tempo avrò ancora davanti, mi chiedo
spesso cosa vorrei fare davvero prima di andarmene. Ma per scoprirlo
dovrei fermarmi».
Ipotesi poco realistica. Martha e il piano sono
una sola cosa. Quando entra in sala e lo vede, punta dritta su di lui
senza guardarsi intorno. I folti capelli bianchi che porta lunghi sulla
schiena come da ragazza sembrano proteggerla da sguardi troppo curiosi.
Suona, incanta, sparisce. Portando con sé il mistero di es sere Martha
Argerich.