Corriere 2.11.16
il ritorno a Keynes per tentare di uscire dalla recessione
di Ricardo Franco Levi
The
Times They Are a-Changing , i tempi stanno cambiando, cantava a metà
degli anni Sessanta Bob Dylan, fresco premio Nobel per la letteratura.
Quello stesso titolo, a mezzo secolo esatto di distanza, è stato scelto,
due anni fa, dal governatore della Banca d’Italia per la lezione
offerta come «Lettura del Mulino». Oggi sono in pochi coloro che come i
capi delle banche centrali possono dire di sapere quanto i tempi stiano
effettivamente cambiando. Sono loro, quasi in solitudine a fronte dello
sbandamento e della paralisi dei governi — e il pensiero non può che
andare a Mario Draghi e alla sua Banca centrale europea — che si sono
dovuti fare carico della responsabilità di salvare e poi di risollevare
le economie precipitate nel profondo buco della crisi. Tanto in
solitudine che uno dei acuti più osservatori, e lui stesso protagonista
di primo piano, dei mercati finanziari, Mohamed El-Eiran, ha intitolato
The Only Game in Town , cioè «l’unico gioco sulla piazza», un suo
recentissimo libro dedicato al loro operare.
Chi meglio, allora,
della presidente della più influente banca centrale del mondo, la
Federal Reserve americana, Janet Yellen, per guardare dritto negli occhi
il mondo che cambia e per indicare in quali direzioni debba procedere —
è questo il titolo della conferenza da lei appena offerta alla
sessantesima conferenza annuale della Federal Reserve Bank of Boston —
«la ricerca macroeconomica dopo la crisi»?
È possibile — si chiede
Yellen guardando al 7 per cento di potenzialità di produrre perduto
dagli Stati Uniti negli anni della crisi — che un persistente calo della
domanda oggi possa causare domani un danno permanente all’offerta, alla
capacità delle imprese e delle persone di far crescere l’economia?
Prima
della recente, profonda crisi la risposta della maggioranza degli
economisti sarebbe stata «no», che variazioni della domanda non possono
avere altro che riflessi temporanei sull’andamento nel lungo periodo
delle economie.
Ma se la risposta — chiede la Yellen citando l’ex
segretario al Tesoro Larry Summers — è sì, che davvero «la mancanza di
domanda crea la mancanza dell’offerta» risulta inevitabile porsi la
domanda successiva. È possibile accrescere la capacità di produrre del
sistema spingendo con forza sulla domanda e surriscaldando per un po’
l’economia? Potrebbero un aumento delle vendite, un mercato del lavoro
in tensione, una più forte domanda generare nuovi investimenti, una
maggiore occupazione, una maggior spesa per ricerca e sviluppo, una più
vivace formazione di nuove imprese?
È evidente il peso che queste
riflessioni possano avere non solo sulla professione degli economisti ma
anche — è sempre la presidente della Federal Reserve che lo dice —
sull’agire tanto delle banche centrali quanto dei governi, sia
nell’intervenire con rapidità ed aggressività in risposta a una
recessione, sia nell’essere più accomodanti in una fase di ripresa. Ci
vorrebbe Keynes. Viene da pensare così nel leggere il testo di questa
lezione di ammirevole onestà intellettuale. Perché se ci volle il grande
economista inglese per trovare la risposta teorica e, quindi, suggerire
le politiche e gli strumenti per rispondere alla Grande Depressione
degli anni Trenta, ora che i fatti sembrano tornare a dargli ragione,
servirebbe di nuovo il suo genio per trovare il filo che ci aiuti ad
uscire dalla Grande Recessione.
Magari andando oltre i confini
stessi dell’economia come ha fatto l’americano Daron Acemoglu avviato,
prima o poi, a ricevere il Premio Nobel per l’economia per i suoi studi
sulla decisiva importanza delle istituzioni nel determinare i successi e
i fallimenti delle nazioni. Del resto, non è forse vero che lo stesso
Adam Smith arrivò nel 1776 a comporre la sua fondamentale opera sulla
Ricchezza delle nazioni partendo, diciassette anni prima, da una Teoria
dei sentimenti morali ?