Corriere 2.11.16
Einstein cavalca la cresta delle onde gravitazionali
Ora abbiamo la certezza che esistono davvero
Lui le aveva intuite e teorizzate cento anni fa
di Stefano Gattei
Il
14 settembre 2015, alle 11:50:45 ora italiana, gli interferometri
gemelli Ligo a Livingston, in Louisiana, e ad Hanford, nello Stato di
Washington, hanno registrato l’arrivo di onde gravitazionali entro una
finestra temporale di 10 millisecondi. L’11 febbraio di quest’anno si è
avuta la conferma ufficiale: dopo decenni di intense ricerche — cui ha
contribuito anche l’Italia, con l’interferometro Virgo (a Cascina, nei
pressi di Pisa) — sappiamo con certezza che le onde gravitazionali
esistono.
La prima pubblicazione sul fenomeno è del 22 giugno
1916, quando Albert Einstein inviò all’Accademia Prussiana delle Scienze
di Berlino una memoria intitolata Soluzione approssimata delle
equazioni di campo gravitazionale . Per vari decenni, tuttavia, molti
scienziati — tra i quali lo stesso Einstein — rimasero incerti circa
l’esistenza effettiva di queste «increspature» nella trama dello
spaziotempo.
Come hanno evidenziato recenti ricerche condotte
congiuntamente dall’Einstein Papers Project del Caltech, in California,
dalla Hebrew University di Gerusalemme e dal Max Planck Institut für
Wissenschaftsgeschichte di Berlino, la prima previsione risale in realtà
a metà febbraio del 1916: la si trova nello scambio epistolare tra
Einstein e Karl Schwarzschild, in cui i due scienziati — nel bel mezzo
del primo conflitto mondiale, con Schwarzschild impegnato contro i russi
sul fronte orientale — esprimevano però non poche riserve sulla realtà
fisica delle onde.
Dopo la morte prematura di Schwarzschild a soli
42 anni, l’11 maggio del 1916, Einstein abbandonò la ricerca per una
difficoltà di carattere matematico apparentemente insormontabile. Vi
ritornò soltanto quando Willem de Sitter (che nel 1932 avrebbe
teorizzato insieme a lui l’esistenza della materia oscura) richiamò la
sua attenzione sul fatto che l’ostacolo in questione poteva essere
superato. In un nuovo articolo, nel giugno di quello stesso anno,
Einstein propose quindi un aggiornamento della propria teoria,
prevedendo — in analogia con la radiazione elettromagnetica —
l’esistenza di onde gravitazionali che viaggiano alla velocità della
luce. L’articolo conteneva un errore, che Einstein corresse nel 1918,
quando derivò la formula per l’emissione delle onde gravitazionali che
(a parte un fattore 2) è ancora oggi considerata corretta.
I suoi
calcoli mostravano tuttavia che le onde erano troppo deboli per poter
essere «osservate» con i mezzi tecnologici a disposizione, e col passare
del tempo lo stesso Einstein riprese a nutrire seri dubbi circa
l’esistenza delle onde, tanto che nel 1936 scrisse un articolo (con
l’amico e collaboratore Nathan Rosen) in cui si proponeva di dimostrare
che non esistevano. Uno dei referee che lessero il testo prima della
pubblicazione individuò tuttavia un errore dei due autori, corretto il
quale il lavoro apparve con una conclusione completamente diversa, in
cui si lasciava aperta la questione (l’episodio è raccontato nel libro
di Daniel Kennefick, Traveling at the Speed of Thought: Einstein and the
Quest for Gravitational Waves , Princeton University Press, 2007, che
offre una ricostruzione molto accurata dell’intera storia).
Non
erano comunque molti i fisici che s’interessavano alla questione. I
pochi che lavoravano nell’ambito della teoria della relatività generale
cercavano in realtà di sostituirla con una teoria che si integrasse con
la meccanica quantistica; oppure indagavano le sue conseguenze per la
cosmologia, contemplando i possibili scenari per l’evoluzione
dell’universo. Le cose iniziarono a cambiare negli anni Cinquanta,
quando la guerra fredda portò a investire fondi ingenti nella ricerca:
nella comunità internazionale degli scienziati si formò un gruppo
dedicato specificamente alla fisica relativistica, e nelle onde
gravitazionali fu individuato uno dei nodi concettuali più importanti
ancora da sciogliere.
Grazie ai lavori di Hermann Bondi, cosmologo
inglese di origini austriache, e del fisico americano Richard Feynman,
si raggiunse presto un ampio consenso circa il fatto che le onde
gravitazionali esistessero, e trasportassero energia. I primi tentativi
di osservarne i piccolissimi effetti furono di Joseph Weber,
all’Università del Maryland. Per quanto negativi, i risultati da lui
conseguiti ispirarono ulteriori ricerche, che condussero col tempo allo
sviluppo di nuove tecniche e metodologie. Fu il punto di partenza per la
costruzione di macchinari più grandi e sofisticati, come quelli di Ligo
e Virgo.
Le basi per la loro costruzione vennero gettate quasi
quarant’anni fa da Rainer Weiss (Mit), Ronald Drever e Kip Thorne
(Caltech), ma ci vollero più di due decenni, dopo l’effettivo avvio del
progetto, perché fosse possibile rilevare — poco più di un anno fa,
appunto — segnali significativi che confermassero i corrugamenti della
struttura spaziotemporale dell’universo, dovuti alla collisione di due
buchi neri (conseguenza anch’essi della teoria della relatività
generale).
Ora che sono state rilevate, le onde gravitazionali
promettono di fornire nuovi strumenti per osservare l’universo. Come
dimostra la strada tortuosa che ha portato alla loro scoperta, «la
scienza non è e non sarà mai un libro chiuso: ogni importante passo
avanti porta con sé nuove domande; ogni sviluppo rivela, a lungo andare,
nuove e più profonde difficoltà» (Albert Einstein).