Corriere 29.11.16
Blair: fermiamo i populisti
Torno in politica ma non da leader
intervista di Federico Fubini
Tony
Blair, l’uomo eletto tre volte primo ministro del Regno Unito, esclude
un ritorno in politica da leader («Mi porto dietro troppi bagagli dal
passato»), ma è convinto che ci sia un vuoto al centro del sistema.
«Molta gente di centrodestra o di centrosinistra — spiega — chiede
politiche radicali, ma pratiche. Non dettate dall’ideologia, ma basate
su una valutazione razionale dei problemi». Dopo la Brexit fatica a
contenere la frustrazione, nel vedere preda degli estremismi il Paese
che un tempo era ai piedi di un centrista come lui.
DAL NOSTRO INVIATO
Londra
La Tony Blair Associates, nel cuore dello sfolgorante quartiere di
Mayfair, è una società senza targa sulla porta. L’uomo eletto tre volte
primo ministro del Regno Unito sa che il suo nome suscita disprezzo e
odio per la guerra in Iraq, non solo nostalgia per gli ultimi anni di
ottimismo nel Paese. «Mi porto dietro un bagaglio» dice con un sorriso
involontariamente sarcastico. A 63 anni sfoggia una forma invidiabile e
una lieve abbronzatura. È più umano di vent’anni fa, meno simile a un
automa nutrito di certezze ed efficienza, ma questo fa parte del
naturale processo di perdita del potere. Dove Blair fatica a contenere
la frustrazione, è nel vedere preda degli estremismi il Paese che un
tempo era ai piedi di un centrista come lui.
Lei parla di «milioni di senzatetto politici» in Gran Bretagna. Che intende dire?
«Si
è perso il centro, nella politica del mio Paese. La preoccupazione del
governo è garantire la Brexit (l’uscita del Regno Unito dall’Unione
Europea, ndr ), poco importa a che costo. E il partito laburista si è
spostato bruscamente a sinistra. Se ci fossero elezioni, molta gente non
saprebbe come votare».
Vuole dire che c’è uno spazio da occupare?
«C’è
un buco attorno al centro del sistema politico, l’area dove penso
ancora che le elezioni si vincano o si perdano. Molta gente di
centrodestra o di centrosinistra chiede politiche radicali, ma pratiche.
Non dettate dall’ideologia, ma basate su una valutazione razionale dei
problemi».
Sa cosa pensa la gente quando uno come lei parla così: Blair vuole tornare in politica.
«Non tornerò nella politica di prima linea, non mi è possibile».
Perché no?
«Mi
porto dietro troppi bagagli dal passato e ci sono elementi nei media
che mi sono profondamente ostili. Mi darebbero la caccia. E poi tocca a
una nuova generazione. Quello che posso fare io, è fornire un po’ di
capacità nello sviluppare un programma di cui le forze progressiste
hanno disperatamente bisogno. Posso anche favorire le connessioni fra
persone che la pensano nello stesso modo».
Sta pensando a fondare un nuovo partito?
«Non
parlo di questo. Sono e resto iscritto al Labour. Però credo che
abbiamo bisogno di un’opposizione vibrante, per obbligare il governo a
rispondere dei suoi atti e per avere una prospettiva di vittoria
elettorale».
Il primo punto in programma di questa nuova forza,
presumibilmente, è rimettere in dubbio l’inevitabilità della Brexit.
Come pensa di riuscirci?
«La cosa strana del referendum sulla
Brexit è che abbiamo deciso di lasciare la Ue. Ma a cosa assomigli
questa Brexit, non ne abbiamo idea. Non conosciamo l’accordo che ci
offrirà il resto d’Europa, né ciò che uscirà dai negoziati. Io non dico
che sulla Brexit faremo marcia indietro, ma che è ancora probabile che
succeda. Dico solo: teniamoci aperte tutte le opzioni».
Gli inglesi che hanno votato per uscire accetteranno il suo consiglio?
«Per
alcuni di loro la Brexit è una questione ideologica, influenzata da una
visione dell’estrema destra, da un cartello nei media fissato su questo
punto e da parti del partito conservatore. E poi ci sono i nazionalisti
dello Ukip. Ma tutto questo blocco vale forse il 20%. Poi c’è un gran
numero di persone che hanno votato per la Brexit perché pensano che il
disagio sia comunque minore dei benefici. Ma se nella realtà scoprono
che è vero l’opposto, allora potrebbero cambiare idea».
Non è strano che lei speri che l’economia vada male, perché gli elettori possano ricredersi?
«Non
è così, spero che l’economia si riprenda con forza. Ma prima del
referendum c’erano tante promesse, dopo invece abbiamo i fatti. Due in
particolare: la nostra moneta è caduta del 13%, un crollo enorme; e la
dichiarazione di bilancio della settimana scorsa dice che avremo 60
miliardi di deficit in più. Non siamo più alle promesse: siamo ai fatti,
va bene? Magari poi non si avverano, ma magari sì. A quel punto invece
di avere più soldi lasciando l’Europa, ne avremmo meno. Questo può far
cambiare nettamente idea agli elettori».
Con un altro referendum o con un cambio di governo alle elezioni?
«Teniamoci
aperte le opzioni. Il fatto che io venga denigrato solo perché lo dico
mostra quanto certa gente sia estremista. Mi rivolgo in particolare agli
elettori laburisti: guardate alle condizioni del sistema sanitario
oggi, pessime. Eppure il governo non mette alcuna energia nel
migliorarle, è completamente assorbito dalla Brexit».
Lei è molto attento a non criticare Donald Trump. Il suo messaggio è: nessun pregiudizio, vediamo cosa farà.
«Già».
Ma
quando Barack Obama è andato a visitare Angela Merkel, ha fatto capire
che ora la leader del mondo libero è lei, la cancelliera tedesca. Che ne
dice?
«Ammiro molto Merkel, ma la domanda è un’altra: come
cambiamo l’Europa in maniera fondamentale? Non è questione di chi
rappresenta i valori dell’Occidente. Il punto è se i leader di
centrodestra e centrosinistra sapranno affrontare i cambiamenti
necessari per calmare i timori diffusi sull’immigrazione, la
globalizzazione o la sicurezza. Non direi mai che la Brexit o l’elezione
di Donald Trump non ci hanno insegnato nulla».
Dunque lei resta cauto su questa idea di Merkel come la leader d’Europa?
«Non
ha senso che lei dica di essere la leader d’Europa e infatti sono certo
che non lo farà. La mia non è una critica. Noi moderati di centrodestra
e centrosinistra dobbiamo essere agenti di cambiamento. Se diventiamo i
gestori dello status quo, saremo spazzati via dai populisti».
Cosa consiglia di fare a Renzi per vincere il referendum?
«Non
ha bisogno di consigli perché sta facendo tutto il possibile. Tocca
agli italiani decidere, ma Renzi in questa situazione è l’agente del
cambiamento. Nel referendum non è in gioco la democrazia, è in gioco la
burocrazia. La posta è far sì che l’Italia sia come la vogliono gli
italiani, abbastanza forte da poter prendere decisioni. Poi chi eleggono
è affar loro. Per me la cosa più strana è che i populisti chiedono il
cambiamento, ma la persona che sta cercando di realizzare il cambiamento
è Renzi».
L’«Economist» dice che bisogna votare No e se l’euro finisce vuol dire che doveva andare così.
«Facciamo
attenzione. È chiaro che sull’euro sono stati fatti errori e, a essere
onesti, fu Silvio Berlusconi il primo capo di governo che mise in
guardia su alcuni di essi. Ma ora l’euro è una realtà e districarla è
molto più duro che decidere se farvi parte. I problemi concettuali di
un’unione monetaria fra economie disallineate sono chiari. Ma ora c’è,
dunque i problemi dell’euro vanno risolti e credo che lo saranno. Non
sottovaluterei i danni di farlo saltare».
Lei parla come se l’euro fosse in pericolo.
«È
sotto pressione. Ci vorranno cambiamenti fondamentali per far sì che
l’area euro possa avere una vera ripresa. Perché se resta dipendente
dalla politica monetaria, che è sempre meno efficace, allora la
disoccupazione e l’insoddisfazione resteranno alte» .