Corriere 29.11.16
Fronte russo oblio italiano
I reduci della terribile disfatta in urss furono messi da parte nel dopoguerra
di Paolo Mieli
L’Urss
pagò alla Seconda guerra mondiale un prezzo altissimo in vite umane:
nel giugno del 1941, al momento dell’attacco hitleriano, il Paese
contava 196,7 milioni di abitanti; il 31 dicembre 1945 erano scesi a
170,5 milioni. All’appello mancavano 26 milioni. Per nascondere l’entità
delle perdite, Stalin disse che i morti erano stati soltanto sette
milioni di persone. Quei morti non furono inutili dal momento che, come
scrive Elena Zubkova in Quando c’era Stalin (il Mulino), la vittoria
fece aumentare in misura senza pari non solo il prestigio internazionale
dell’Unione Sovietica, ma anche l’autorità del regime all’interno del
Paese. Il mese di maggio del 1945 segnò il culmine dell’autorevolezza di
Stalin, «il suo nome divenne tutt’uno con la vittoria nella mente delle
masse, ed egli prese ad essere considerato, di fatto, come mandato
dalla Provvidenza». Il popolo dell’Urss, invece, pagò un duplice prezzo
al conflitto: il numero dei morti di cui si è detto e le deportazioni.
Secondo Oleg V. Chlevnjuk, che in Stalin. Biografia di un dittatore
(Mondadori) li ha censiti, furono trattati da collaborazionisti nonché
deportati «calmucchi, gruppi etnici del Caucaso settentrionale (ceceni,
ingusci, karachay, balcari) e tatari della Crimea, nonché la totalità
delle minoranze bulgare, greche e armene» per un totale di un milione di
persone.
Però i russi — e le diverse minoranze etniche
appartenenti all’Unione Sovietica — non furono gli unici (tedeschi a
parte, ma qui il discorso è diverso) a patire delle conseguenze di
quella tragica avventura hitleriana. Quel che accadde ai soldati
italiani dell’Armir fu importantissimo per abbattere il morale fascista e
provocare la caduta del regime. E il peggio venne poi allorché nella
neonata Repubblica italiana i reduci di quella sfortunata impresa
militare furono trattati alla stregua di reietti. Del documentatissimo
libro di Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia. 1941-1943 (il
Mulino), il primo dato che colpisce è che su un totale di 229 mila
uomini partiti per combattere contro l’Armata rossa, più di un terzo non
rientrò in patria. E dei circa 70 mila che furono presi prigionieri dai
sovietici, ne tornarono in patria poco più di 10 mila. La Giusti riesce
a sfatare il mito negativo che solo gli italiani soffrissero di carenze
organizzative: sulla sconfitta tedesca adesso si può dire in modo
documentato «che la stessa Wehrmacht entrò in crisi a causa della
difficile situazione logistica in Unione Sovietica». Le fonti
documentarie dimostrano la difficoltà di relazione al vertice dei
comandi, evidenziano la diversità dei caratteri degli alti ufficiali, in
particolare dei generali Giovanni Messe e Italo Gariboldi.
Nel
corso della guerra le relazioni con i tedeschi non erano state facili.
Due volumi — Alpini e tedeschi sul Don (Rossato) di Alessandro
Massignani e Invasori, non vittime (Laterza) di Thomas Schlammer —
contengono un’ampia documentazione del fatto che, dopo un’iniziale
cordialità tra italiani e tedeschi, i rapporti andarono guastandosi e si
trasformarono, in seguito alle sconfitte subite, in ostilità. Ostilità
che, nel corso della ritirata, divenne sempre più esplicita. Lo stesso
Galeazzo Ciano riferisce nei suoi diari della crescente irritazione in
proposito di Benito Mussolini (convinto all’inizio che la guerra sarebbe
stata velocissima e vincente) nei confronti di Adolf Hitler. Il fatto
è, scrive la Giusti, che «la Germania stava conducendo una guerra di
sterminio e di annientamento, finalizzata allo sfruttamento della
manodopera e delle risorse energetiche dell’Urss, per la qual cosa aveva
persino programmato l’eliminazione per fame di trenta milioni di
civili». Gli italiani, invece, ebbero un comportamento più umano. Dai
diari di guerra dei nostri connazionali emergono giudizi molto duri sui
tedeschi, «soprattutto in merito alle violenze usate verso la
popolazione e i prigionieri di guerra», laddove gli italiani, invece,
cercarono di avere un atteggiamento assai diverso.
Questo però non
modificò il successivo comportamento dei russi nei confronti dei
soldati italiani sconfitti. Nel 1944 — riferisce la Giusti — allorché
l’Italia di Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio era passata dalla
parte dell’alleanza antifascista, l’Urss richiese la consegna di dieci
militari italiani ormai rimpatriati e ne trattenne in prigionia 24
(alcuni fino al 1954), con l’accusa di aver commesso crimini contro la
popolazione e i prigionieri di guerra sovietici. Tra questi, i tre
generali catturati (Emilio Battisti, Etelvoldo Pascolini e Umberto
Ricagno), alcuni ufficiali come il cappellano Giovanni Brevi e il
tenente medico Enrico Reginato. Del resto — e questo vale per tutti i
militari dell’Asse accusati — in Urss «il concetto di crimine di guerra
era applicato in un’accezione molto ampia, secondo la quale erano
criminali anche i civili costretti a collaborare con gli occupanti». Dal
1943 al 1952, documenta la Giusti, nell’Urss furono giudicate per
crimini di guerra 81.780 persone, di cui 25.209 militari stranieri,
molti dei quali erano all’epoca segregati nei lager sovietici. In totale
il numero dei giudicati come «criminali» arrivò a 40 mila, perlopiù
tedeschi e austriaci; la maggior parte degli altri condannati era invece
costituita dai cittadini sovietici, militari e civili, che avevano
collaborato con le truppe dell’Asse.
Dopo la morte di Stalin
(1953), prosegue la Giusti, il governo sovietico decise di liberare i
reclusi, dichiarando che non sussistevano più i motivi della pena: tra
questi vi erano 12 italiani. Inoltre, nel 1991 fu approvata la legge
sulla «Riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche», in
seguito alla quale alla Procura militare russa sono arrivate ben 12 mila
richieste di riabilitazione di cui ottomila sono state accolte. In
molti casi si affermava che i processi erano stati «condotti sulla base
di testimonianze poco attendibili o false denunce». Dalle fonti russe
venute alla luce dopo il 1991 è poi emerso «un quadro più completo» da
cui escono sfatati «alcuni miti che hanno fino ad oggi rappresentato
l’Urss come un Paese unito nella lotta contro il nemico». La
documentazione — tratta soprattutto dall’Archivio centrale del Servizio
federale di Sicurezza della Federazione russa, dall’Archivio centrale
del ministero della Difesa russo e dall’Archivio statale della
Federazione russa — ha dimostrato che, scrive la Giusti, «in realtà la
struttura sociale sulla quale si incardinò il sistema di occupazione
nazifascista era molto complessa». Molto più di quanto si sia potuto fin
qui immaginare. E lo stesso movimento partigiano sovietico che, agli
ordini di Stalin, si batteva contro tedeschi e italiani «era
caratterizzato da luci e ombre». Spesso «più che combattere i nemici, i
partigiani si accanivano contro i nazionalisti russi o i
collaborazionisti, in una sorta di guerra fratricida, come accadeva del
resto anche in Jugoslavia nella lotta tra partigiani comunisti e
nazionalisti serbi». E come, per certi versi, era accaduto anche nel
corso della guerra civile spagnola (1936-1939) nonché, nel corso della
Resistenza, in Francia e in Italia.
Quanto alle accuse di
«collaborazionismo», fa una certa impressione la lettura delle lettere
dei militari sovietici all’epoca censurate dall’Nkvd (Commissariato del
popolo agli Affari interni): gran parte di queste missive riporta
«considerazioni negative sull’andamento delle operazioni o di sfiducia
nei comandi». Altre volte, beninteso, compaiono espressioni di
entusiastico patriottismo. Ciò che crea sconcerto è l’atteggiamento
spietato di Stalin, che non esitò a emanare decreti draconiani non solo
contro i collaborazionisti, ma anche contro i disfattisti, persino
contro coloro che si dicevano «incerti della vittoria», accusati di
«minare l’umore collettivo».
Ma torniamo ai soldati dell’Armata
italiana in Russia. Sorprende il racconto di quel che accadde a coloro
che avevano avuto la fortuna di sopravvivere e di tornare in Italia. Il
viaggio di rientro fu terribile. Riferisce Eugenio Corti — in I più non
ritornano. Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo
(edito da Garzanti nel 1947, poi da Mursia nel 1990 e nel 2013 da Ares) —
che «quelli in treno non furono giorni piacevoli: stipati sui carri due
uomini per cuccetta, continuamente tormentati dalla fame e dai pidocchi
e circondati dal fetore di membra in cancrena, con soste continue —
anche di decine di ore — nelle stazioni e stazioncine». Poi, quando
arrivavano in Italia, quei reduci venivano accolti da familiari dei
militari rimasti in terra russa, che mostravano foto dei parenti per
avere notizie. Per anni e anni. Fino al 1954, quando tornarono gli
ultimi.
Racconta Enrico Reginato, in 12 anni di prigionia
nell’Urss (Canova): «Arrivati a Udine, madri, sorelle, spose, padri,
fratelli di soldati dispersi in Russia, con l’ansia dipinta in volto, ci
assediano… Fra scoppi irrefrenabili di pianto vedo mani agitarsi
intorno a me, mani che mi porgono fotografie sbiadite di ragazzi
fiorenti e vigorosi che non sono più tornati». E quelli che tornano sono
irriconoscibili. Anche per come sono vestiti. Gino Daniele, rientrato
nel 1945, ricorda che indossava un paio di pantaloni da ufficiale
polacco, una giacca da ufficiale lettone con guarnizioni dorate, una
bustina tedesca e scarpe da pallone, ormai senza chiodi con la suola
rotta legata con il fil di ferro. Il luogotenente Umberto di Savoia lo
ricevette assieme ai suoi compagni di traversie e ordinò di dar loro dei
vestiti nuovi. «Scelsi un bel completo che poi mi fu rubato in treno»,
racconta Daniele. Molti reduci furono ricoverati in ospedali
psichiatrici. Ma il loro stato confusionale era tale da mettere in
difficoltà persino chi doveva scrivere un’anamnesi. Il libro di Massimo
Tornabene, La guerra dei matti. Il manicomio di Racconigi tra fascismo e
Liberazione (Araba Fenice) riporta questa descrizione: «Risulta
provenire dall’Armir… ha mantenuto contegno fatuo, stolido, disarmonico;
ride scioccamente, assume atteggiamenti infantili; tende a ingerire
oggetti svariati che gli capitano sottomano».
Anche Nuto Revelli,
in Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana (Einaudi), così si
descrive: «Ho i nervi scossi. Sento sulle mie spalle il peso dei morti,
dei dispersi in Russia. Mi ritorna alla mente lo spettacolo di quella
gente sfinita, con i piedi in cancrena, che non riesce più ad andare
avanti, che abbiamo abbandonato ai bordi delle piste gelate». E c’è
dell’altro. Valerio Andreatta, in Uno dei tanti. Memorie dalla campagna
di Russia alla deportazione in Germania (Cierre Edizioni-Istresco),
racconta dei festeggiamenti per il suo ritorno, ma poi prosegue con
queste parole: «Sono tornato ma mi sento depresso, non ho lavoro, non ho
soldi, non ho più quelle salde amicizie dell’anteguerra, molti amici
non sono tornati. Non sento intorno a me nessuna solidarietà, nessuna
considerazione da parte di nessuno e tanto meno delle istituzioni».
E
siamo giunti al secondo dramma dei reduci dall’Unione Sovietica. Dopo
la fine della guerra, scrive Maria Teresa Giusti, alle difficoltà
pratiche del reinserimento sociale si aggiunsero le strumentalizzazioni
politiche che servivano a far ricadere sui reduci militari le
responsabilità delle disastrose condizioni materiali e sociali in cui si
trovava il Paese. Le loro manifestazioni e rimostranze, tese a
rivendicare diritti sacrosanti che né la società né il governo
sembravano riconoscere — ne parla Mirella Serri in I profeti disarmati
1945-1948. La guerra fra le due sinistre (Corbaccio) — sarebbero state
bollate come fasciste da socialisti e comunisti. La società italiana e
il governo «non seppero trovare una mediazione né una forma di
riconciliazione tra quanti, a vario modo, avevano combattuto per il
Paese, evidenziando così da subito l’impossibilità di considerare il
combattente come figura unitaria».
E fu così che i militari
«considerati complici del regime fascista», furono «relegati
nell’oblio». Se non peggio, come capitò alla gran parte dei reduci dalla
campagna di Russia. Pur avendo cercato di assorbire negli uffici
statali e nelle aziende private il 10 per cento di questi reduci,
racconta la Giusti, il governo italiano riuscì solo in parte a
«risarcire» gli ex combattenti. La loro assunzione finì poi per creare
attriti sociali dal momento che molte aziende, per rispettare la legge,
li assumevano dopo aver licenziato altri lavoratori. Ciò che — insieme
alla circostanza che erano accusati di aver «combattuto contro un potere
comunista» — contribuì a creare un duraturo pregiudizio nei confronti
dei reduci dell’Armir. Un pregiudizio destinato a depositarsi nelle
ricostruzioni storiche e che ha resistito fino a pochissimo tempo fa. In
qualche caso fino ai giorni nostri.